Per capire meglio la mostra al Brown Project Space è opportuno fare una nota sul profilo di “Brown”, la rivista. Fondata da
Luca Francesconi e
Luigi Presicce, entrambi artisti prima che editor, “Brown” segue una direzione editoriale ben precisa. La sua attenzione è sempre stata concentrata sulla pratica artistica piuttosto che sul sistema dell’arte, e sul confronto degli artisti tra loro prima che col pubblico.
Il primo articolo pubblicato era una conversazione fra Eleonora Battiston e Carol Lu, incentrata sul rapporto dell’arte con l’eternità e sulle attività di alcuni collettivi artistici in Cina. La forma della conversazione, in specie
inter pares – sia Battiston che Lu sono critiche, e gli artisti vengono di solito intervistati da altri artisti – è particolarmente cara alla rivista, così come il confronto col tempo. Arrivati al terzo numero e alla seconda mostra, Brown continua a rinnovare il proprio interesse per questi temi.
Let’s forget about today until tomorrow si sviluppa attorno a una sorta di questionario, proposto dal curatore Marco Tagliaferro a quattro giovani artisti italiani, i quali hanno investigato ciascuno il proprio rapporto col simbolo e con la pratica artistica.
Il risultato sono quattro opere che dialogano con lo stesso spazio e tra loro, seguendo due direttrici. La prima è tesa fra le opere di
Giulio Frigo e
Francesco Barocco, che recuperano segni e figure antiche e le rimettono in gioco sul piano sensuale. Il primo ha teso due fili viola attraverso lo spazio della galleria, spartendo lo spazio e decretando il centro di un’invisibile sfera che contiene l’intero ambiente (ma che è virtualmente infinita); il secondo bilancia gli spazi vuoti creatisi con il volume leggero ma compatto della propria scultura, costituita da quattro esagrammi derivati dall’
I-Ching e resi tridimensionali.
La seconda opposizione è tra i lavori di
Loredana Di Lillo e
Alessandro Piangiamore, che si confrontano con l’immagine e con la sua deriva nell’immaginario, fra storia e memoria. La prima utilizza paesaggi o ritratti trovati, divisi in ordine cronologico e incasellati in cornici di dimensioni diverse, lasciate sul pavimento, appoggiate al muro. Il secondo riflette sulla tradizione paesaggistica e scorpora in un collage due parti della stessa immagine.
Il confronto col passato, con la memoria, con l’autorità dialettica del simbolico – qualcosa che non è solo moderno, ma anche religioso – è inevitabile per i quattro artisti, ma tutti palesano un desiderio di riappropriazione della sensualità della propria opera, del proprio fare. E con “fare” non s’intende qui la manualità, ma il controllo sull’esperienza di artista e fruitore.
Accettare la pesantezza dei significati dei segni, riconoscendone il fascino, può essere allora un modo per concentrare la propria attenzione di creatori sulla processualità, sulla messa in atto.