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Il ballo è una manifestazione verticale di un desiderio orizzontale”: così Woody Allen definiva la danza. Una questione di prospettive e di punti di vista, di piani cartesiani e direzioni, di arte e sensualità. Ribaltamenti e disorientamenti che
Michal Helfman (Tel Aviv, 1973) fa suoi e ripropone nella sua personale da Cardi Black Box.
Una lezione di danza classica, che invade tutto il piano terra della galleria. A partire dall’ingresso, che strizza l’occhio alla statuaria di
Degas: una ballerina in bronzo, dalla tipica posa impressionista, con le braccia dietro la schiena, e una nuova forza carnale, gambe lunghe e tornite, tacchi a spillo e un bustier disegnato sulla magra silhouette.
Una curiosa introduzione a quello ch’è il masterpiece dell’artista israeliana: un’installazione ambientale con specchi, una sbarra in metallo, un video sulla parete. Sullo schermo, una fanciulla volteggia leggera attorno alla sbarra, con movimenti eleganti e controllati da étoile scaligera. I
l senso di straniamento è forte, innegabile la presenza di un elemento non chiaro, di perplessità, difficilmente intelligibile. È una questione di percezione.
Basta infatti ruotare di novanta gradi un’immagine perché una raffinata danzatrice di balletto si trasformi in una provocante lap-dancer e perché degli esercizi di riscaldamento si trasformino in un’esibizione da tripla X. Proprio questa è la magia compiuta da Helfman. Che incanta lo spettatore, il quale durante la visione si trova sullo stesso palco già calcato dalla performer, circondato da specchi.
The Lesson, il suo titolo. Un insegnamento di vita, una metafora sullo stato dell’arte, sulla facilità di fraintendimento dell’occhio.
Ma la scatola nera dell’arte non di esaurisce in quest’installazione. Tra le pareti corvine del piano superiore, un altro video fa luce nell’oscurità. In
Just be good to me, tra il silenzio e l’isolamento del deserto, l’artista condivide con il piccolo figlio un gesto arcaico d’amore, ripetendo incessantemente i pochi versi di una canzone, in un montaggio d’immagini statiche e dal suono ripetitivo, ancora una volta ipnotico. Un tavolo dal piano bucato, con tre sgabelli avvitati, completa l’ambiente, creando una costellazione, un raggruppamento astrale opaco, in contrasto con le piccole
mirrorball che scintillano nei fotogrammi in rotazione, ma in piena assonanza col cielo notturno del deserto.
Oscurità e sfolgorio si fronteggiano sul body della ginnasta olimpionica che ripete i suoi esercizi col nastro, mentre è la stessa Helfman a ritrarsi nelle piccole teste scultoree, modelli tridimensionali del grande disegno a matita di
Ruth che fronteggia il teatrino a luci rosse del piano terra.
È l’essenza del femminino sacro, quella svelata dall’artista, della complicata sfaccettatura muliebre. Così apparente, e così nascosta, all’occhio dell’uomo.