“I see the landscape / It begins to tell the story / I don’t know where to begin / I feel like taking my clothes off / Which way should I look?”. Non sono le strofe di un cantautore, ma le riflessioni tratte dal video di un artista che dà forma, vibrante di colore, a una concezione alternativa della relazione uomo-spazio.
Franklin Evans (Reno, Nevada, 1967; vive a New York) è alla sua prima personale in Italia. Sotto il titolo
Manscape raccoglie acquerelli e chine su carta grezza. Spazi creati, paesaggi ideali nati dal retropensiero che l’accumulo -di cose, persone, capitali- modifichi lo spazio umano rosicchiandolo e apra nuove possibilità di orientazione. La poetica di Evans, lungi dall’estetizzare la denuncia di uno stato di cose, ne vuole essere piuttosto la visione de-realizzante, facendo emergere il sostrato dei mondi incongrui e inconciliabili che l’individuo porta dentro di sé.
Da circa due anni, Evans ha accantonato la tela per dedicarsi all’acquerello su carta, alla ricerca di un contatto più diretto con la parete. I suoi lavori, se da un lato puramente ideale si possono accostare alle atmosfere magiche e sognanti di
Marc Chagall e alla bella materia colorata di
Frank Stella, rappresentano tuttavia uno stile molto personale. Sono caratterizzati da una solitudine cromatica -Antonio Arèvalo, autore del testo critico, parla di
“solitudine sonora”– in cui cristalli caleidoscopici e vortici luminosi che sembrano collages svolazzano come stelle filanti e raggi brillanti.
Sullo sfondo, sempre, s’intravedono silhouette di figure solitarie, isolate in una candida bolla, mentre tutt’intorno si sviluppa il paesaggio fantastico; figure mimetizzate in un’opulenta selva di colore o poste come contraltare ad alberi spogli che scivolano su spiagge inclinate
. “Permetto al fluire dell’acquerello e dell’inchiostro di suggerire sentieri per la mente e per gli occhi”, dichiara Evans. È ciò che, in fondo, lo slittamento semantico da
Landscape a
Manscape vuol significare: il paesaggio dell’anima.
Nelle opere esposte -sette acquerelli e un video- è basilare l’espressione della junghiana vita interiore e può sembrare paradossale che la figura della persona vi sia mortificata con tratti scabri e accennati, come se fosse irrilevante rispetto allo sfondo. Ma il punto centrale è proprio questo: nel viaggio analitico la materia, non ancora giunta a livello di consapevolezza, emerge come un’energia potente e potenzialmente devastante, fino a spiazzare l’io stesso che la produce, perché è un io non ancora individuato. Così, nelle carte colorate di Evans il paesaggio dell’anima è lì proprio perché creazione del soggetto, qualcosa che portiamo dentro di noi e talora ci sovrasta, facendoci provare un senso di spaesamento, producendo una “strana” geografia spirituale. Come i sogni più bizzarri e paurosi non necessariamente sono negativi, così la sensazione di inquietudine trasmessa dai lavori di Evans si stempera in una salutare potenza creativa e propositiva. Dire che siano “psichedelici” è un vuoto truismo; sono piuttosto l’espressione sensibile di un’energia sopita che, portata in superficie, sulla superficie della carta e della parete, rinnova l’esperienza artistica come forma di conoscenza del mondo là fuori e di quello interiore.
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dal momento che Federico Luger è venezuelano, non vedo perchè debba avere un interesse particolare per gli artisti italiani. detto questo, ne ha di più in scuderia di molti suoi colleghi che invece italiani sono.
perchè spesso gli italiani non hanno ancora capito come si lavora.....
Perchè un americano quando ci sono migliardi di italiani che fanno il medesimo lavoro?
... non capirò mai forse?