Quando non piove, verso sera, quando un paio di squarci rosa sulla testa bastano a ricordare un tramonto, allora l’installazione di
Jorge Peris (Alzira, Valencia, 1969) diventa altamente suggestiva. Per chi fosse abituato a ricordare la galleria Zero… come uno spazio fatto di alcune stanze bianche e sempre in perfetto ordine, uno spazio espositivo illuminato in maniera variabile, con gli ambienti ben studiati, questa volta sarà sorpreso. Un imprevisto è congeniato per attenderlo, per creare attesa. Fatto qualche passo oltre la soglia, inspiegabilmente aperta, sulla destra si trova il comunicato stampa di
Marte in Gaia e Cosimo, appoggiato su una scatola di cartone. Se si è fortunati, all’interno non si trova nessuno. Nessun altro. Mentre di fronte a chi entra si spalanca un nuovo varco. Al visitatore non rimane che mettere a fuoco la vista e lasciarsi prendere da quel che gli si para davanti. Un paesaggio lunare, urbano e desertico, in bilico fra distruzione e costruzione. Alle pareti, in alcune zone, l’intonaco ha raggiunto il livello dei mattoni e della calce. Le finestre del terrazzo sono impolverate e sommerse da alcuni centimetri di sabbia, polvere chiara. Mentre a intervalli di qualche secondo, un compressore rosso, da sette cavalli e mezzo, sbuffa con forza. La macchina temporizzata, unico indice di colpa nei dintorni, attraverso alcuni tubi pompa la polvere da terra e la spara contro quel che rimane della galleria.
Come un anello impastato di vita e morte, un
ouruboros -quel simbolo ancestrale del serpente che ingoia la sua stessa coda, sottraendosi allo spazio col tempo e nel tempo medesimo- così Peris decide di far terminare il ciclo espositivo di Zero… Incominciando, però, la stagione artistica.
L’artista spagnolo restituisce alla struttura la violenza ineluttabile di uno spazio che lotta contro sé stesso, per tornare a essere un luogo. Senza connotati e senza convinzioni, così, le stanze della galleria disorientano chi le attraversa. Non è soltanto l’odore polveroso di morte a far capire che attorno esiste ancora qualcosa, qualcosa che è già esistito. Ma è anche la luce, l’elemento che maggiormente sottolinea e racconta. È la luce che compie il suo giro, in modo naturale, e che lavora ciclica fuori, nel cielo, per abbassarsi fino a spegnersi. Infatti, non essendo stata inserita in questa installazione alcuna luce artificiale, l’imbrunire è perfetto, perché fa riaffiorare con le giuste ombre, spettrali, un ambiente sottratto. Un appartamento privato della propria funzione, perché sfoderato di quella corazza che, sotto un’altra veste, lo sta rimettendo all’esistenza, un’altra volta (proprio come la muta della pelle del serpente, per tornare alla metafora rettiliana). Una delle installazioni più poetiche e scardinatrici di questo strano, lento avvio di stagione artistica.
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tutto molto già visto... credo che dalla galleria italiana 'di punta' ci si debba aspettare molto di più