La sollecitazione, nell’opera di Francesco Merletti (Brescia, 1966), arriva gradualmente. Ad un primo impatto con l’opera, l’elemento che colpisce è la staticità della figura, che appare cristallizzata in uno spazio a-temporale. Ma sotto c’è dell’altro. E a poco a poco lo sguardo se ne accorge e s’incuriosisce, dapprima percepisce ma ancora non vede, finchè i piccoli particolari non saltano all’occhio improvvisamente. Le proporzioni che non sono mai giuste, quel leggero scarto, quel qualcosa che non quadra, come epifanie improvvise e cerebrali, a dare nuovo significato alla visione. Come a dire, il micro diventa macro ed assume una sua precisa urgenza.
Una figurazione, quella di Merletti, che sottende una rielaborazione concettuale molto più interiorizzata di quel che si pensi e non è così facilmente codificabile. Come quell’ossessione maniacale per la stessa modella in tensione, che nasconde un’ansia repressa e trattenuta e perciò in maggior misura disturbante, vestita di nero per
E sono figure che hanno un loro vissuto, mai vergini, lese nell’anima o nel corpo, che si muovono sul filo conduttore della sospensione: il tempo è azzerato, l’azione si svolge silenziosa davanti ai nostri occhi lasciando intendere che qualcosa è sul punto di accadere o per meglio dire, esplodere sul palcoscenico della vita. Le pose in appernza artificiose sono tentativi falliti di relazione, svelano l’incomunicabilità e risultano fallaci nel momento stesso in cui impongono un ruolo. Così la mimica esageratamente espressiva e drammaticamente teatrale, diviene maschera-mezzo per affrontare l’esterno e l’intervento materico si fa protesi del corpo stesso.
Nella serie dei Piccoli oggetti pericolosi, stupisce -nella ricerca quasi voluta del pericolo, alimentata da una sorta di sofisticato snobismo- la naturalezza con la quale la figura compie gesti apparentemente assurdi e contraddittori, accendendo l’inquietudine. Il piccolo oggetto pericoloso, che sia un cavo elettrico tenuto religiosamente in mano come una tazzina da the, un piccolo cagnolino o pezzo di lego da ingurgitare con noncuranza come un pasticcino, si rivela quasi una distrazione portata all’eccesso, una voglia di trasgressione da non dichiarare. Un sintomo di sottomissione compulsiva a quel fascino perverso del rischio, che porta inevitabilmente verso l’autodistruzione.
francesca baboni
mostra visitata il 20 ottobre 2004
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