Alla fine del
Candido di Voltaire, l’ingenuo protagonista la smetteva di viaggiare e si dedicava al proprio orticello. Nel libro era una metafora del “pensare per sé”, ma ci sono altri modi di vederla. L’orto di
Stéphanie Nava (Marsiglia, 1973; vive a Marsiglia e Londra), per esempio, ha tutt’altro significato.
L’allestimento che l’artista francese ha realizzato al Docva è una sorta di orto-stato, una capsula di maturazione indipendente dove, insieme alle verdure, si coltiva un’ideologia. Il suo
plot (che in inglese significa sia “complotto” che “piccolo pezzo di terra recintato per costruire o per il giardinaggio”) è un’installazione unica, risultato di anni di variazioni su un tema germogliato nella sua istanza più completa qui a Milano. L’idea è ispirata a una campagna chiamata
Dig for Victory e lanciata dal Ministero dell’Agricoltura inglese nel 1940 per contrastare la scarsità di cibo nella nazione, promuovendo la coltivazione di prodotti ortofrutticoli nei terreni pubblici.
Lo spazio dello stanzone che ospita la mostra è organizzato in varie sotto-installazioni, ciascuna a rappresentare un organo ben preciso sia dell’orto sia della società/autarchia che esso rappresenta. C’è la serra dei libri (la parte teorica dell’ideologia), un’ampia sezione dove crescono le verdure del regime, l’angolo del prodotto finito e inscatolato (quello della propaganda) e anche un sedile rialzato per controllare la situazione. Più che uno stato orwelliano, l’artista ricrea una versione disincantata e allegorica di una nazione che vive tempi difficili ed è costretta a rimboccarsi le maniche e a ingoiarsi anche un po’ di retorica.
Alcuni oggetti dell’allestimento sono ready made (libri, cestino, carriola), ma la maggior parte sono disegni a matita su carta bianca, semplici e nitidi. Foglie, bulbi e insetti si presentano come il risultato di un lavoro manuale. Contrastano un po’ con l’approccio concettuale dell’insieme, e l’abbondanza di carta bianca restituisce un’impressione di leggerezza che stride con lo scenario di ristrettezza e precarietà implicate dal soggetto di partenza. La grammatica di Nava è molto coerente e lo spazio è scandito in maniera perfettamente disciplinata, ma questa scelta estetica, per quanto apprezzabile per la pulizia del tratto e la continuità poetica con i lavori passati dell’artista, lascia un po’ perplessi.
“
Lungi dall’essere un ritorno all’idea dell’Eden così spesso evocata dai giardini, voglio parlare dei campi coltivati in un serio contesto ‘verde’. Questo non li rende meno belli, ma li permea della violenza circostante, presente nella politica, nella conflittualità o nell’economia”.
Le parole dell’autrice dichiarano l’intento di restituire una visione non necessariamente critica o “meno bella”, ma con i piedi ben piantati in terra. I disegni sono belli, certo, ma è proprio la terra che non si sente, nell’orto di Stéphanie Nava.
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Caro Nicola Bozzi,
Primo, Le prego di scusare se scrivo con errori, sono Francese e non scrivo molto bene l'Italiano. Ho letto con attenzione la sua rivista su mia mostra a Viafarini e se rispetto completamente il suo punto di vista, vorrei fare un'osservazione sull'ultimo paragrafo del Suo testo in cui Lei cita un passo di un testo che ho scritto a proposito del progetto Considering a Plot. Questo testo è stato sfortunatamente pubblicato in Italiano con un errore di traduzione (che è adesso cambiata). Lei mi cita parlando dei "campi cultivati in un serio contesto 'verde'", la frase, in realtà è “Lungi dall’essere un ritorno all’idea dell’Eden così spesso evocata dai giardini, voglio parlare dei campi coltivati in un contesto aspro, 'grigio'."
Mi sembra che cambia molto l'interpretazione che fa. Con questa frase, volevo dire che un giardino cresciuto in un contesto industriale non è meno bello dell'Eden, è soltanto più colpito dal suo contesto.
Non ho mai avuto "l'intento di restituire una visione non necessariamente critica o "meno bella", ma con i piedi ben piantati in terra". È tutto il contrario. Questo progetto è fondamentalemente critico e costruito teoricamente, lontano dalla terra. In fatto, sono d'accordo con lei, la terra manca. È l'idea propria di quest'orto. È industriale, è enciclopedico, è come un libro aperto. Parla di una realtà ma non è questa realtà. È una costruzione del mente che può vedersi come giardino ma anche come un lavoro che tratta di disegno, di questione di territorio, di scienza, di rappresentazione, etc.
Bien cordialement à vous,
Stéphanie Nava
Cara Stephanie, hai ragione. La traduzione in effetti cambia parecchio il discorso, e restituisce coerenza al testo ed alla mostra. Se avessi letto il testo come l'avevi scritto tu, sicuramente il mio giudizio finale sulla mostra sarebbe stato diverso. Sono contento comunque che tu mi abbia fatto questa puntualizzazione, ed è un bene che il formato di questa pagina, articolo + commenti, possa permettere questo tipo di rettifiche e scambi di opinione.
Un saluto
Nicola