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rispetto alla proverbialità dell’etichetta durante gli anni ‘80 thatcheriani.
Conseguentemente, la sensazione procurata
dai suoi lavori non scaturisce dalla novità o dal coup de théâtre,
bensì dal peso e dalla densità.
L’impatto con le opere di Hugo
Wilson, in prima istanza, giova di una doppia sorpresa. Innanzitutto sono
tradizionalmente belle, di quella bellezza pre-fotografia per cui la precisione
è uno dei canoni: Dodus Dei sostituisce
un dodo all’agnello del celeberrimo dipinto di Zurbarán ma ne replica l’equilibrio tonale e la perfezione
compositiva; gli oli di Poison Ivy, a
prima vista, potrebbero essere illustrazioni da un’enciclopedia botanica, come
il ritratto a carboncino di un glittodonte stare a margine di un trattato di
zoologia.
Secondariamente,
se è vero che una direttrice dominante dell’arte contemporanea è quella
dell’autoreferenzialità o del grado zero (l’opera dice ciò che mostra oppure
semplicemente esprime un sentire individuale), sono infiniti i discorsi possibili
a proposito o attorno al lavoro di Hugo Wilson. L’artista in persona, che
appare un philosophe settecentesco
nei modi e un giovane del XXI secolo negli ambiti di ricerca, esplicita alcuni
temi: “Gli spazi tra analisi ed estetica,
la distanza tra fede e logica”, “la
ricontestualizzazione degli oggetti”, “il
caos organizzato di una generazione a metà tra l’eccitazione postmoderna e
l’istantaneità della rivoluzione informatica”, l’autonomia dei sistemi
biologici e umani.
Il
cuore dell’esposizione è, letteralmente, Self
Feeder, un cuore di cervo sottoposto a un processo corrosivo derivato da un
metodo tradizionale di archiviazione medica: dopo aver iniettato una resina
negli spazi cavi, l’organo viene messo a bagno nell’acido per due settimane
fino alla completa erosione di tessuti e muscoli, la quale lascia soltanto un
calco in negativo. Il discorso, ipertestuale e onnivoro, di Wilson parla, in
questo caso, proprio del suo opposto, dei sistemi chiusi, autosufficienti,
ponendo a emblema un apparato circolatorio.
Altrove
si tratta del multiforme, del proteiforme e del complementare: è la
biodiversità, gli animali extraordinaires
o favolosi perché estinti, come il
dodo e il glittodonte, disegnati con piglio darwiniano e precisione fotografica,
oppure la ricorrenza delle forme architettoniche e la loro rifunzionalizzazione
nei siti sacri, al variare di tempi, luoghi e culti, infine la complementarietà
della natura, suggerita della prossimità di erbe velenose e antidoti.
Il titolo della personale
milanese, Ad pondus omnium,
suggerisce il calcolo, la considerazione esatta delle valenze e delle
potenzialità di ogni oggetto; il titolo della personale londinese
contemporanea, Vanitas, prova un
discorso secondo e un pensiero sistematico che abbraccia gli opposti in una quête
anacronistica e senza tempo a proposito della complessità del cosmo.
L’arte di Wilson si serve di
storia, biologia, zoologia, psicologia (la serie dedicata alle macchie di
Rorschach), speculazione filosofica e della storia dell’arte stessa per farsi
cultura nel senso più completo del termine. È ancora un emergente poco noto, ma in un sistema migliore fondato sul
merito sarebbe già la next big thing.
alessandro ronchi
mostra
visitata il 25 novembre 2010
dal 16 novembre 2010 al 21 gennaio 2011
Hugo Wilson – Ad
Pondus Omnium. Per considerare il peso di tutte le cose
Project B Contemporay Art
Via Borgonuovo, 3 (zona Montenapoleone) – 20121 Milano
Orario: da lunedì a venerdì ore 10.30-13 e 14-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0286998751; fax +39 0280581467; info@projectb.eu; www.projectb.eu
[exibart]
fucking boring .
un artista veramente molto interessante.