Artisti frustrati e galleristi accentratori tendono spesso a negare l’importanza del ruolo del curatore. La mostra
Tadzio alla Galleria Bianconi è una prova d’eccezione non solo dell’utilità di tale figura, ma anche un caso di artisticità della curatela. Secondo la pratica inaugurata, tra gli altri, da Harald Szeemann, il curatore è infatti un artista tra gli artisti, una sorta di
primus inter pares che, con le sue scelte, opera in un campo creativo quanto quello degli artisti.
Il caso di questa mostra, poi, è affatto peculiare, in quanto la somma delle parti supera in maniera notevole le singole componenti. Alberto Zanchetta orchestra, infatti, un’esposizione molto riuscita e feconda di sensi ed echi linguistici, pur cooptando fra i quattro artisti alcuni nomi non sempre impeccabili in passato, né in questa stessa occasione.
Il tema iconografico è la figura di Tadzio, l’imberbe concupito da von Aschenbach in
Morte a Venezia, simbolo assoluto e definitivo dello struggimento del desiderio. È l’occasione, secondo il disegno di Zanchetta, per rimettere in circolo, pur senza alcun reazionariato, i
topoi dell’arte antica (
vanitas,
memento mori) e, soprattutto, per ritornare all’ideale classico di bellezza maschile.
Tale tema permette a
Willy Verginer, scultore altoatesino che usa il legno, di acquistare l’asciuttezza e la ieraticità che gli mancavano. Il suo
Kopie è un notevole esempio di adolescente altero, in cui i vezzi – lo sguardo in tralice e il fregio che ne decora il petto e la spalla – non smentiscono la compattezza globale dell’opera. Più ambiguo
Massimo Pulini, che nei suoi soggetti sembra accumulare tutte le età dell’individuo, come fossero state sovrapposte l’una all’altra mediante un processo digitale.
S’insinua in questa sovrapposizione il primo germe di una narrazione che soggiace alla mostra, una seconda narrazione rispetto a quella, usata come base, del libro di Mann. Contribuiscono a ciò anche le pagine del volume, staccate e appese alle pareti (ed è forse qui, in maniera del tutto laterale, che si trova il nucleo della mostra). Le sottolineature sparse di alcune frasi producono una tensione narrativa che all’inizio sembra sparsa, ma poi monta verso una direzione, una sensazione che si rivela nella seconda sala della mostra.
Le opere di Samorì e Longobardi rendono conclamata la fusione tra le due figure, Tadzio e il morente von Aschenbach. In particolare, nelle opere di
Nino Longobardi si attua una sorta di copula tra vita e morte, tra gioventù struggente e indomita prossimità alla morte, creando una peculiare
danse macabre. In
Nicola Samorì, invece, della vitalità rimane solo una traccia, come un ultimo sussulto prima della stasi mortifera ma elevatrice.
Va certamente sottolineato come, nell’affrontare un tema del genere, la mostra non faccia alcuna concessione all’odierna sessualizzazione dell’infante, che talvolta, per fini utilitaristici, l’arte mutua dalla pubblicità. Da notare, infine, che
Tadzio è la prima mostra di una trilogia che si svilupperà in galleria nei prossimi mesi.
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Come si fa a dire che un curatore, o critico, è il primo fra pari? Senza artisti non ci sarebbero i critici, ma non il contrario.