Preziosa e regale, la trama della storia incede sul
red
carpet. Soffice,
vellutata. Accarezzata da luci che, pur nelle teche, la fanno diventare tattile.
E dove, se non a Milano, capitale oggi della moda e
illo tempore dell’eccellenza tessile? Di questa
vocazione “genetica” si rintracciano radici palesi in una mostra specialistica
sì, ma non di nicchia, per una serie di motivi.
Primo: il buon supporto didattico, sviluppato in cicli di
conferenze e visite guidate. Secondo: il senso di continuità divulgativa di un
progetto – ideato in collaborazione con l’Istituto per la Storia dell’Arte
Lombarda – che vedrà altre “puntate” dedicate alla lavorazione della seta nella
Milano spagnola, austriaca e otto-novecentesca, con un approfondimento finale
dedicato agli stilisti dal Dopoguerra agli anni ‘90.
Terzo: la bellezza dei
pezzi esposti, oltre cinquanta tra frammenti di velluti, damaschi, lampassi e
broccati, insieme a dipinti, paramenti liturgici e libri miniati.
Un
percorso piccolo ma “immersivo” dalla raffinata atmosfera cortese, nonché
un’ottima occasione per dare una ripassata alla pittura del Quattrocento
lombardo, tra
de’ Predis,
Boltraffio e, soprattutto,
Vincenzo Foppa: mirabile il
suo
Ritratto di Giovanni Francesco Brivio, per finezza d’esecuzione e
rigore analitico, tanto sotto il profilo formale quanto sotto l’aspetto
psicologico.
Dai
Visconti agli Sforza, dal sacro al profano. Accostando gli eleganti tarocchi
illustrati da
Bonifacio Bembo agli sfarzosi piviali, testimoni di come certe fiammate
di pauperismo fossero ormai estinte. Oro e argento a profusione, e quel cremisi
che impose vere e proprie stragi di… cocciniglie, le quali, seccate e
polverizzate, creavano uno tra i colori più costosi e ricercati. A non dire del
morello – da non confondere assolutamente col nero! – che Ludovico il Moro,
ossessionato da stemmi, imprese
et similia, si fece fare
ad personam, sfoggio di potere oltre che di
lusso, tinta “araldica” subito esplosa come status symbol di tendenza. E,
rimanendo nelle alte sfere, pare che la scena meneghina in quegli anni vedesse
lo stesso
Leonardo da Vinci impegnato nell’elaborazione di decori ispirati ai nodi infiniti
dai manoscritti irlandesi del VII secolo, denominati appunto “
vincij”.
Arti
applicate, insomma. E con quanta applicazione. Sicché uno degli aspetti più
affascinanti dell’esposizione è proprio quello sottinteso: la fatica
silenziosa, meticolosa, di generazioni di donne. Aracni tra le cui dita, spesso
interpreti dei disegni di celebri artisti, fiorivano ricami di fili luccicanti
e magete, antenate delle moderne
paillette (come quelle che punteggiano il
Paliotto del
Christus Patiens,
commissionato da Beatrice d’Este e restaurato per l’occasione).
Mani
che, inconsapevolmente, andarono lontano, come dimostra il caftano del principe
di Valacchia: spettacolare, ma decisamente poco pratico – pesantissimo,
oversize, dalle maniche strettissime -,
tessuto in Lombardia e approdato nell’Est europeo attraverso le navi degli
alacri genovesi. Un bell’esempio di mercato globale
ante litteram, tornato al punto di partenza.