Poniamo, per un attimo, come
obiettivo di non voler parlare (qui) d’altro, se non di eccezioni, e delle loro
conseguenze indelebili sui sistemi di riferimento posti nella realtà. Con
l’apertura di
The Zero Budget Biennial, ad esempio, stiamo per descrivere un nuovo
scenario, un nuovo palcoscenico affacciato sull’arte contemporanea, o si sta
creando, all’opposto, una nuova richiesta di interesse? La differenza tra le
due direzioni, tra i due flussi di senso, è enorme.
The Zero Budget Biennial nasce infatti come una sorta di
manifesto a-programmatico, con la volontà di rappresentare una rassegna che
dovrebbe “
mettere la parola fine a tutte le biennali così come le conosciamo”. Al di fuori di questo
appuntamento, mentre la cordata di gallerie di Via Ventura apre nuove personali
e collettive in parte già viste, Pianissimo comunica un altro lato, un piano
parallelo della verità sull’arte.
Lasciando in disparte le attività
strategiche di domanda-offerta,
The Zero Budget Biennial presenta, in sala, venti lavori
realizzati ed esposti senza alcuna previsione di scambio. Attraverso ciascuno
di esso, la galleria si riempie di prototipi estetici ed eterocliti, lavori che
vanno dalla scultura alla fotografia, dal disegno all’installazione,
completandosi ciascuno a modo proprio.
Quasi nessuno dei lavori possiede,
al proprio fianco, un continuum formale che ne estenda il percorso
narrativo-etimologico. Ogni opera, infatti, si interrompe nei confronti dello
spazio attorno, per sottolineare la propria singolare presenza come significante
particolare. Sebbene a un primo colpo d’occhio non sembri esserci una sintassi
che accomuna la collettiva, è curioso notare come, alla fine della visita,
The
Zero Budget Biennial tenga fede agli intenti che si era prefissata, inventando un linguaggio che non
ha bisogno di troppe parole per essere parlato
. Nevralgico corollario di
possibilità.
Da curiosare, sono in particolare
alcuni lavori. In ordine sparso, ricordiamo la delicata quanto metallica
Filtering
the Air (2009) di
Davide Balula:
una fragile rete geometrica, in bilico sull’aria, una rete costruita con punte
di lama e due sole canne di bambù. Da tenere a mente è anche la proiezione
monocromatica di diapositive astratte, poste in sequenza e poi installate da
Simon
Dybbre Moeller (
Reading
Colors for a Large Wall, 2007).
Mentre, ancora, da osservare con
calma sono le invenzioni divertenti di
Ruth Root (
Press Release, 2008) e di
Simone Schardt
& Wolf Schmelter (
Steady
State for the
Zero Budget Biennial, 2009): presentazioni ribelli dell’intera collettiva.
Sebbene di
natura maggiormente contemplativa e
concettuale, è curioso ricordare anche l’esile scultura di
Sara Barker (
Inbetween trees, 2009), totem circospetto che
vigila dall’alto (187 centimetri) sull’intera mostra, e la dissacrazione
poetico-fotografica di
Anna Strand (
Making a point, 2005), stampa visibile sulla sinistra, appesa alla
parete che accompagna l’entrata. Opera che funge da monito e da dichiarazione:
“Qui segnato territorio da totale libertà”.
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un interessante esperimento che dovrebbe collocare l'esposizione d'arte in una nuova dimensione della fruizione, sottraendola all'imperium del mercato.
Una spinta davvero rivoluzionaria. Chissà che esiti avrà...
Insomma, e' chiaro che le gallerie devono prima di tutto vendere, altrimenti difficile pagare anche solo spazio, bollette ecc...
i miei complimenti a Davide
Marco
ha! ha! ha! ha! Monica ma quale esperimento originale, ma quale biennale a costo zero ma se con 30 e passa artisti sembra una personale!!! e manco originale ma come mille che abbiamo già visto e rivisto ah! ah! ah! ah!
Perché complimenti a Davide? specificare prego, fateci capire.
ricetta per una mostra mainstream perfetta, oggi:
1) idea curiosa e pseudo alternativa
2) gruppo di opere scelte a caso di artisti scelti un po' a caso, ma con galleria non a caso alle spalle, tra i 2000 che fanno un lavoro sulla leggerezza, sulla rilettura parapsicologica del minimalismo, sull'estetica estatica... del materiale, sull'object trouvé condito da impassibile ricamo mentale possibilmente scientifico, qualche fotografia Lo-Fi.
3)collocazione impeccabile (con nonchalance) dei manufatti nello spazio.
4)galleria possibilmente trandy o quasi, giusto un poco quanto basta.
5) gallerista ombroso/a e distaccato/a + qualche assistente che si aggira con fare indaffarato con scartoffie varie sottobraccio (versione international).
Va beh! alcuni lavori mi sono piaciuti (il perchè dopo).
L'esperimento mi sembra interessante per motivi diversi. Anche da poche immagini, si capisce che il centro del problema è un linguaggio dell'arte contemporanea evidentemente affaticato. Non si capisce perchè mortificarsi con la privazione dei soldi (???). Il denaro serve per vivere; queste mi sembrano derive autolesioniste. Il punto è una seria riflessione sul linguaggio, ruolo e format. Questo è il problema oggi in italia e non solo.
Badate bene. La mia non è una critica distruttiva, in quanto propongo un' alternativa concreta su ognuna delle tre questioni. A buon intenditor poche parole.
la parola rivoluzionario ormai si è offesa da tempo
A proposto di originalità!
Sarebbe stato utile citare nella recensione questa nobile Biennale!!
http://www.emergency-biennale.org
La cosa che colpisce di più e che non si percepiscono le differenze stilistiche, potrebbero essere una persona sola o mille, questo sicuramente uno degli aspetti che il progetto dovrebbe indagare, il senso del fare, il senso della forma, (Merz "che fare?" 1968 Internazioale Situazionista "ne travaillez jamais" (1958) ....)
Signori, da tempo è ormai imprescindibile una riflessione sul linguaggio. Questa potrebbe essere veramente una personale dell'ennesimo artista stereotipato. Ma come queste immagini ormai ve ne sono a centinaia. Inevitabilmente questo appiattimento di contenuti porta la prevaricazione di quello che c'è intorno (relazioni, luoghi, ecc). Allo stesso tempo il bombardamento di contenuti standard incentiva una superficialità/mediocrità di fruizione.
Per questi motivi lo spazio della mostra si deve dilatare. Il ruolo dell'artista va ridefinito radicalmente come sovrapposizione di ruoli, mentre il linguaggio deve lavorare sulla superficialità come fosse materia/argilla. Bisogna sostenere la "distanza" ecc ecc. E mi fermo.