“
Nel mio lavoro, di solito, il significato non è la molla che fa scattare l’immagine né la gioia di inseguirla. È la seduzione dell’oggetto l’elemento primario: la sua pregnanza fisica e figurale che in genere mi spinge a tentarne l’interpretazione e a darne visione”. Le parole di
Piero Guccione (Scicli, Ragusa, 1935) tratteggiano una missione artistica che, pur trovando nella natura la sua fonte prediletta, da quest’ultima si emancipa per non ridursi a mera pittura realistica e trovar forza nella sensibilità lirica, intimista, senza con ciò sfociare nell’astrazione.
È proprio a una personalità così varia e complessa che la mostra ideata da Vittorio Sgarbi vuole rendere omaggio, ripercorrendo quasi interamente -con una selezione di circa ottanta opere realizzate nelle tecniche dell’olio su tela e del pastello su carta- l’evoluzione espressiva del siciliano.
È nel fermento dell’ambiente romano dei primi anni ‘60, dove la militanza nel gruppo Il Pro e il Contro conduce il pittore a una sapiente padronanza tecnica, ma dal taglio modernamente innovativo, che nascono i paesaggi “modernizzati” -impropriamente accostati alle esperienze della Pop Art italiana e ad artisti come
Schifano e
Arcangeli, che hanno invece optato per un’arte estroflessa- caratterizzati da scenari naturali di sapore antico, memori dell’eredità classica,
e tuttavia contaminati dai segni ingombranti dell’industrializzazione, come
Erice (1963) e
Aereo sulla città (1966).
Risalgono agli anni ’70 le tele in cui Guccione, ritornato a Scicli e, immerso nel paesaggio mediterraneo, mitico e idilliaco, si lascia rapire dalla contemplazione di una natura che diviene il pretesto essenziale per lasciarsi pervadere dal sentimento dell’assoluto: è datato 1971 il meditabondo
Autoritratto nel paesaggio, dove l’artista, ripreso di scorcio, getta il proprio sguardo sull’indefinita distesa verde e in essa si disperde, a tradire un panteismo dalle risonanze ataviche.
Degna di menzione è la serie dei
d’après, grazie alla quale l’artista ha modo di confrontarsi con maestri del passato quali
Michelangelo,
Caravaggio,
Giorgione: basti citare il sublime
Dal giudizio di Michelangelo (1999), in cui le figure risultano come sospese tra rivelazione e dissolvenza, presenza e parvenza. È in opere come
L’ombra e l’ibisco su fondo grigio (1994) che, invece, Guccione insiste su una natura sempre più rarefatta, quasi generata da geometrie essenziali, queste ultime accentuate dal taglio fotografico delle inquadrature, attento a esaltare significati simbolici.
Curioso che la mostra milanese, tesa a ripercorrere in senso cronologico il vasto
corpus di opere dell’artista, si concluda proprio laddove ha avuto inizio o, meglio, si apra laddove dovrebbe concludersi: scelta questa assai felice perché, una volta esaurito il percorso espositivo, si può intraprendere nuovamente il cammino a partire dagli ultimi lavori di Guccione che, sedotto dal Romanticismo, oscilla tra sublime nordico e infinito mediterraneo, per approdare ai paesaggi siculi dalle atmosfere silenti e sospese, a riecheggiare toni metafisici e segnatamente morandiani.
Un Guccione al quale si potrebbero facilmente lasciar pronunciare i versi leopardiani: “
Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.