Dagli anni ’60 ad oggi, il rapporto tra arte e media è molto cambiato. L’influenza di un pensiero ideologicamente schierato ha fatto sì che gli intellettuali del secolo scorso salutassero l’avvento del piccolo schermo con eccessiva diffidenza, individuando nel mezzo uno strumento politico, monopolizzatore dell’opinione pubblica. Da simili speculazioni è nato un abbondante filone di soluzioni artistiche: le esperienze della Pop europea, alcuni esperimenti Fluxus, addirittura una serie di elaborati telefilm, per lo più inglesi, basati su tematiche orwelliane. Poi sono trascorsi quarant’anni e il Grande Fratello ha visto la luce sul serio. In maniera dichiaratamente kitsch. E non solo come format. Permeando ogni manifestazione umana con un linguaggio patinato, nazionalpopolare, che non risparmia nulla: la guerra, la morte, i sentimenti, di qualunque natura essi siano. Tutto è rimescolato all’interno del grande show della vita, di cui il media si fa interprete, depositario e Solone.
A questo stato delle cose si oppone Paul Horn (Amstetten, 1966). Con un passato da regista cinematografico l’artista sa bene quali siano i trucchi del mestiere e decide di metterli a nudo. Grazie ad una pittura spietata, evanescente, in cui, adottando la tattica dello still frame e bombando i contorni delle sue grandi tele -quasi a dare l’illusione ottica dello schermo televisivo- sottolinea il distacco esistente tra l’immagine virtuale e la consistenza reale delle cose. Con un linguaggio irriverente, cui nulla sfugge. I lineamenti delicati delle vallette, i sorrisi smaglianti dei presentatori, la mimica e la gestualità perfettamente controllate dei politici, sono nel mirino di Horn. Troppo nauseato dalla propria esperienza, dalla perfetta conoscenza del mezzo, per esimersi dal condividerla con lo spettatore.
Usando colori violenti, tinte angoscianti -pur nella loro levità- Horn toglie il velo di Maya, svela l’inganno. Le cose riacquistano il loro vero spessore, si fanno nitide. Il make up si scioglie. I volti divengono grotteschi. Stanchi. Cedono alla violenza della vita. Ridicoli dinanzi agli occhi stupefatti di chi osserva. E, a guardar bene, ci si accorge che ci sono veramente tutti: dai più invisi ai più amati. Tutti congelati, in maniera quasi winckelmanniana, nell’attimo immediato che precede l’urlo di dolore -una rivelazione sconcertante- o tristemente successivo all’irreparabile, come in Poliziotto morto. Così i titoli si fanno emblema di un messaggio non codificato -alluso, spifferato in segreto, ad un orecchio- limitandosi a descrivere freddamente, senza alcuna partecipazione emotiva, ciò che rappresentano. Creando un contrasto con l’immagine raggelante, ma mai sovversivo. L’operazione di Horn è, infatti, puramente intellettuale. Dà i mezzi, ma non le soluzioni. Ed è in questo, tornando a monte, che la relazione arte e media è mutata. Oggi non si tratta più di denunciare, bensì di constatare. Con lucidità, rassegnazione. Persino, volendo, con un po’ di sano disincanto.
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