In principio fu un proiettore 16mm e una stanza vuota e polverosa. Per rendere visibile una linea di luce e il suo lento movimento circolare sulla parete, a descrivere un cono nello spazio da essa attraversato.
Line Describing a Cone (1973), il primo dei film di luce solida di
Anthony McCall (St. Paul’s Cray, 1946; vive a New York), riduceva ai minimi termini – tempo e luce – il mezzo cinematografico e, per la prima volta, lo faceva esistere nello spazio tridimensionale e non solo su una piatta superficie.
Proprio sul rapporto con la tridimensionalità e con lo spazio riflettono i nuovi lavori di McCall, acquisendo una dimensione soprattutto scultorea. Sculture di luce in movimento, appunti sulla scultura nell’epoca dell’informatizzazione e del virtuale, nei quali l’artista britannico lascia emergere il rapporto con il corpo e con lo spettatore.
Il corporeo non è qui oggetto di rappresentazione, ma piuttosto una tensione, una direzione verso la quale si spingono le proiezioni di luce, rese solide e manifeste dal fumo generato da apposite macchine. Si tratta di “
figure in piedi” che si reggono sul disegno di luce generato da un proiettore appeso al soffitto. Le “orme” di luce sul pavimento parlano un linguaggio inaccessibile, fatto di complesse metamorfosi di ellissi, onde, segmenti e linee curve.
Rispetto ai primi lavori, le ultime opere di McCall sono più complesse, impredittibili e senza possibilità di esser ricordate; richiamano per questo continuamente l’attenzione dello spettatore. Come in
Between You and I (2006), l’unica doppia proiezione in mostra, che fa procedere parallelamente due film di luce, uno a fianco dell’altro, combinando nell’orma disegnata tre movimenti, quelli di un’ellisse che si contrae e si espande, di un’onda che si muove verso l’ellisse e di una linea attorno all’onda, che si sovrappongono e si oscurano vicendevolmente.
In un lento movimento, il disegno di luce sul pavimento si apre e si sfalda, per poi ritornare alla forma iniziale nell’altro cono di luce e continuare inesorabilmente il suo movimento. Sono proprio questi movimenti lentissimi e inesauribili a caratterizzare le contrazioni ed espansioni del volume descritto dalla luce nello spazio, ricordando il respiro, da cui il titolo alla mostra e di tre delle opere esposte.
Un lento respiro fatto di fumo e luce, ma anche della fondamentale presenza degli spettatori. Come ha osservato lo stesso McCall, le sue opere “
richiedono che sia presente il corpo di carne dello spettatore e che sia attivo”. I movimenti della luce descrivono infatti delle camere, delle stanze che gli spettatori possono rompere con i loro corpi o rispettare nelle aperture e chiusure che impongono. Si tratta di un’esperienza di relazione, di dialogo con l’opera, tra il suo spazio e il suo movimento e quelli degli spettatori, nel loro insieme. Sono loro ad abitarne temporaneamente una porzione e a prendervi parte. Trasformando la quota del volume di luce alla portata della loro altezza e venendo quasi inglobati nell’opera, rendendosi ombre.
Come una sorta di remake del mito della caverna, senza però catene e prigionieri, e con più proiettori digitali al posto del sole, a ricordarci – con le parole di McCall – che “
corpi, interazioni e scambi non sono idee divine”.