Il termine “capitale”, e il suo concetto, evocano studi di marxiana memoria mai del tutto abbandonati, soprattutto da determinate frange ideologiche. E sempre, inevitabilmente, con un’aura fortemente negativa. Il capitale è, per il filosofo tedesco, sinonimo in senso lato di sfruttamento, alienazione, accumulazione di guadagno indebito da parte del più potente nei confronti del più debole. E ancora oggi, a distanza di un secolo e mezzo, riflettere su questo concetto significa automaticamente denunciare uno squilibrio, un errore di valutazione, una situazione moralmente sbagliata. Anche in arte. E anche alla Prometeo Gallery. La (quasi) neonata galleria milanese riflette sul modello capitalista mondiale di oggi attraverso gli occhi di dodici artisti provenienti da tutto il globo, con una collettiva all’insegna di una fresca anarchia espressiva. Perchè veramente la varietà delle tecniche interpretative è assoluta. Si passa dalla tradizione del collage di immagini tratte dalla contemporaneità dell’americano Ian Tweedy (un bianco e nero nostalgico che guarda al mondo occidentale degli ultimi trent’anni) all’ironia dolceamara degli oggetti ricoperti con spuma di cotone bianca di Ronald Moràn, in cui la denuncia della violenza quotidiana insita nel capitalismo dei videogiochi e delle armi giocattolo è dissimulata sotto a uno strato di candore. Si passa dalla classica icona della
balneazione selvaggia iniziata con il boom economico dell’Italia anni ‘50 (su una tela vagamente pop di Daniele Galliano), ai due brevissimi video del rumeno Ciprian Muresan, in cui la Capital culture è interamente presente nei visi e nei gesti di due bambini di oggi. E ancora la sequenza di immagini fotografiche di Wilbert Carmona, in cui un giovane componente di una band criminale rivela via via la sua paura, tatuata sul petto e dentro di se; la duplice installazione di Gianluca Codeghini, in cui a un light-box si affianca un vecchio giradischi polveroso; la serie ironica di disegni stilizzati di Galliano, che con la verve della vignetta denuncia come tutto, oggi, abbia un prezzo in denaro. E i video ironico-amari di Javier Tellez e A-1 53167 (pseudonimo dell’artista che corrisponde al suo numero di passaporto), la critica – un po’ trita – al logo Mc Donald’s di Maxim Karakulof, e altro ancora. Tutto questo, per gli artisti, è cultura capitalistica. Una cultura da cui, risponde Enrico Morsiani dalla project room della galleria, bisogna allontanarsi: per evaderne i confini, per uscire da se stessi e da un campanilismo da esorcizzare. Santa Nastro propone la piccola personale di Morsiani, slegata dal contesto curato da Scotini. Un invito concettuale all’evasione, allo spostamento, all’allontanamento fisico e mentale. Come? Addirittura, spostando, allontanando fisicamente, le opere della mostra (immagini fotografiche della cultura Maori, nel punto sulla terra concretamente più lontano dalla casa dell’artista): presenti allo spettatore solo in video, un video che ritrae proprio il loro disallestimento, il loro spostamento in luoghi esterni, altri, rispetto alla galleria. Verso quello stesso altrove a cui conducono i fili bianchi sciolti lungo lo spazio espositivo, come fili di Arianna che portano fuori dal soffocamento del labirinto. In un gioco ad alto tasso di concettualismo.
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Post-concettualism sucks.
Good Night, and Good Luck.
L.S.
GRANDE IDA!!!
YUHUUUUUUUUUUUUUUUUU
UN CARO SALUTO!!!
Anche i disegni di Morsiani che mettono in crisi tutto il primo piano...
i disegni di galliano, oltre al dipinto, da non perdere!
ma perchè è una mostra? Povera Prometeo!