Mettetevi comodi. Lo spettacolo sta per cominciare. Non c’è una platea, non c’è un sipario, non c’è neppure un palcoscenico. Ma in galleria viene ricreato l’ambiente asettico ed elegante del teatro moderno, (con)fondendo in maniera inequivocabile i confini tra video-arte e drammaturgia, tra performance e spettacolo.
È quanto accade nella kunsthalle di Giò Marconi, che ospita la mostra The Chittendens, seconda personale dell’americana Catherine Sullivan (Los Angeles, 1968). Basta dare uno sguardo al curriculum dell’artista per rendersi conto che l’impronta teatrale proviene da solide basi formative: dapprima come attrice, quindi come esploratrice appassionata di diverse forme d’arte, la Sullivan ha da sempre sviluppato una forte attrazione per la recitazione. E ne dà magistralmente prova in questa multipla installazione, composta da cinque video connessi tra loro, eppure tanto slegati l’uno con l’altro da far perdere la bussola allo spettatore. Una continua sovrapposizione e interposizione di personaggi, ambientazioni, epoche, costumi di scena e gestualità differenti rimandano ad una commistione di suggestioni, che vanno dal teatro pirandelliano e brechtiano alle tele surrealiste di Magritte; dai film noir anni Venti, alle surreali imprese cinematografiche di Dalì e Bunuel. Il tutto con una notevole qualità registica e musicale (è intervenuto, per la colonna sonora, il compositore Sean Griffith).
Si inizia con il video Poverty Island (un’isoletta sul lago Michigan per cui mai nome fu più appropriato, a giudicare dal video): un marinaio d’altri tempi con lo sguardo immerso nell’orizzonte, frame di un’isola abbandonata con scene di mare, di vento, di sole e di solitudine. Di malinconia e di silenzio.
Un faro, i suoi abitanti.
Gli altri video cambiano leggermente direzione: subentrano le componenti della recitazione, del bianco e nero, degli interni. Piuttosto, un angoscioso e imprevedibile alternarsi di non-luoghi: uffici pubblici, appartamenti, alberghi. E parallelamente un continuo interscambio di epoche e di personaggi, di gesti e situazioni. Si fa fortissima, in questi video, l’impronta brechtiana del Teatro dell’Assurdo: i personaggi sono visioni allucinate di individui alienati e sofferenti, colti in momenti di gestualità folle e isterica e impegnati in impossibili tentativi di dialogo. Oppure ermeticamente chiusi nella propria sfera psicologica. Si passa con continui voli della cinepresa da un Napoleone impazzito ad un Mozart stanco, da una segretaria impeccabile ad un manager cinico, da un marinaio morente ad attori isterici su un palcoscenico. Una vena di follia attraversa tutto e tutti. Eppure il tutto è miracolosamente addolcito dal malinconico pianoforte di sottofondo. Tornano alla mente le parole di Pirandello, quando definiva l’intera esistenza come un’incessante recitazione sul palcoscenico del mondo.
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