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Il potere logora chi non ce l’ha”, professava il Divo Giulio
Andreotti citando Talleyrand, in tempi già sospetti. Questo vecchio adagio, mai
démodé, sembra
fungere da filo conduttore anche dell’ultima personale di
Regina José
Galindo (Città
del Guatemala, 1974), intitolata per l’appunto
Juegos de Poder.
Tuttavia, il logorìo di cui rende conto l’artista
guatemalteca è molto lontano da quello descritto dall’anziano senatore
italiano. Non si tratta, infatti, né di bramosia né d’invidia: qui si parla d’impotenza,
costrizione, sudditanza psicologica. Sensazioni che in alcuni Paesi del sud del
mondo forse toccano il proprio apice, ma che trovano terreno fertile anche in Occidente,
nella vita quotidiana, attraverso sofisticate e un po’ sadiche forme di
manipolazione e controllo, non prima né ultima la televisione.
E sembra, più che altro, che di queste voglia parlare
l’artista, attraverso un percorso espositivo composto da un mezzobusto, dal report
su carta di una performance (
America’s Family Prison) inscenata dall’intera famiglia
Galindo in una cella negli Stati Uniti abitata per ventiquattro ore,
e, in larga parte, da video.
Piatto forte è, senz’altro, l’opera che titola la mostra.
L’artista si fa riprendere mentre un ipnotizzatore la riduce alla sua volontà,
ordinandole di eseguire una serie di azioni mortificanti. Forse il tormentone
recitato da questi, che non lesina di evidenziare la propria supremazia,
risulta talvolta un po’ didascalico, ma la relazione inscenata fra vittima e
carnefice è veritiera e psicologicamente complessa, tale da indurre lo
spettatore a un’angosciata, impotente partecipazione.
Meno sofferto, anzi animato da una certa dose d’ironia è
Let’s
Rodeo. L’artista,
a cavallo di un toro meccanico, si cimenta nella disperata impresa di domarlo.
Nel lasso di un flusso temporale senza fine, all’ammaestratrice non è dato di
ammansire né al toro di disarcionare, mentre il “potere” si fa beffe
di entrambi.
Un certo riflessivo sarcasmo accompagna
Busto. Invitata a partecipare alla Biennale
de L’Havana, Galindo invia un proprio autoritratto in marmo. La sostituzione a
mezzo di simulacro del corpo dell’artista, supporto privilegiato di messaggi
per lo più politici, sconfessa inevitabilmente la necessità della sua presenza
in un contesto che le appare, almeno attualmente, irrimediabilmente
contaminato. L’effige, ritratta con sguardo severo, che non lascia trasparire
alcuna indulgenza, funge da monito.
Non si tratta di una tregua, ma di un volontario
allontanamento. L’utilizzo delle pratiche della scultura classica si rifà a
codici di potere dalla radice ben più antica e profonda. L’arte non si può
sostituire alla storia, ma pretende di farne parte. L’assenza è, quindi, solo
momentanea.