La ricchezza della ricorsività non viene alla luce solo nell’addizione e nella mera ripetizione. Prende vita, soprattutto, attraversando una serie di ritrovamenti, reperti simili di entità diverse tra loro. Perché la ciclicità, l’insistenza collezionistica, l’infinita accumulazione di uguali assottigliano i confini della definizione. Così persino gli elementi di scarto, oggetti rugginosi, possono compenetrarsi, annullandosi man mano che arrivano a completamento. E l’arte sfida il dissolvimento dell’accumulazione, sfruttando le analogie e le politure che ne derivano, raggiungendo le affastellanti abrasioni della perdita. In fondo, giù fino all’essenza.
Ania Orlikowska (Lodz, Polonia, 1979), per la prima volta in Italia, propone Still life, una personale che parla di nature non ancora morte. Nature incerte, ferme ad un presente che non ha passato, entità materiche che non aspirano neppure a rivivere uguali nel futuro. Le opere esposte in galleria sono un segno, solo una tappa di un percorso estetico più vasto. Due video si confrontano con gli stessi soggetti, ma con basi musicali diverse. Di fianco sono appese alcune fotografie, mentre più nascoste troviamo due installazioni.
Il tema della natura morta, adattato a questi supporti creativi, “sfora” di molto, andando oltre la portata pittorica delle immagini e la violenza repulsiva di alcuni paesaggi ritratti. Nelle fotografie si alternano primi piani di lenzuola spiegazzate, accartocciate e stressate. Poi d’improvviso emerge una macchia, trattenuta dal cotone. Così il rosso altera il nitore dell’intera serie. E il cerchio fluido della similitudine accatastante si rompe. L’accumularsi di oggetti simili, allora, sottolinea il dettaglio, lo esalta fino a caricarlo di uno spessore lucido che, nel caso della giovane artista polacca, acquista un valore lugubre, olocaustico, a tratti grottesco.
Nelle immagini lo spazio visivo è asfittico, non c’è vuoto, non c’è cornice, le cose scivolano le une sopra le altre. Persino nelle installazioni non c’è un vero e proprio posto per il punto di fuga. Ne La fine del mondo, l’artista sistema una serie di vetri e specchi che moltiplicano all’infinito la propria immagine. I vetri sono nascosti dietro le pareti che li contengono e li filtrano attraverso uno spioncino. Solo in posizione da voyeur è permesso osservare i giochi dei riflessi, un infinito moltiplicarsi di un paio di scarpine nere. Questa coppia di oggetti, allora, posta fra gli specchi, diventa un cammino di milioni di repliche. Da notare anche i loop musicali che accompagnano i filmati video. Una serie di motivi beethoviani sembrano dare il moto all’ecosistema di una zolla di terra, prima deserta e poi, pian piano, in crescendo, sempre più pullulante di vermi.
Benché la ripetizione rappresentativa dei soggetti venga utilizzata per dare forza e nuova storia alle cose trovate per caso, sembra esserci spazio per lavorare su una vera estetica dell’accumulo. Si ricorda che la Orlikowska, anche se giovanissima, ha già esposto al Centrum Sztuki Wspolczesnej Zamek Ujazdowski di Varsavia e, più importante, presso il Kunstwerke Muzeum di Berlino. Attualmente è borsista del premio Deutsche Bank per l’arte polacca.
ginevra bria
mostra visitata il 14 ottobre 2006
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