I ritratti fotografici sono una parte importante della nostra vita. Su fototessere nei documenti, sulla copertine dei giornali o con le foto segnaletiche vengono impresse delle identità , e non soltanto delle immagini. Attraverso di esse, la fiducia nell’oggettività della fotografia nutre la curiosità dei nostri sguardi, alla ricerca delle anime di chi vi è immortalato. Così rimaniamo assorti di fronte a un volto fotografato, cercando di penetrarne emozioni o pensieri, e forse decifrarne i segni scavati dal tempo, immaginandone la personalità . Ma è un tentativo destinato a fallire, perché le apparenze ingannano o, meglio, come recita un vecchio proverbio portoghese, “chi guarda un volto, non vede il cuore”.
Le fotografie di
Andrzej Dragan (Rocznik, Polonia, 1978) sono un esercizio di metodo che sembra aver assunto a emblema la saggezza di questo detto popolare. I suoi scatti non catturano un momento, un’emozione o un pensiero; sono soltanto un espediente, un primo passo per la rielaborazione.
Non si tratta di trattenere bressonianamente il respiro, ma di fissare semplicemente un punto di partenza su cui lavorare in seguito, piĂą o meno a lungo. Ricercatore in fisica quantistica, compositore, fotografo che detesta fotografare, Dragan ha inventato uno stile particolare, tanto da meritare un nome,
effetto Dragan, e svariati tentativi d’imitazione. Il giovane artista polacco utilizza la fotografia come un metodo sperimentale per rendere evidente la falsificabilità della realtà e le menzogne delle immagini. Una delle fotografia più emblematiche è
Allegory on the Thruth, in cui è raffigurato un Cristo con il corpo coperto di piaghe. L’espressione del suo volto non ha nessuna traccia dell’iconografia tradizionale, il suo sguardo è insolente e ferino. Mentre indica agli scettici di toccare con mano la realtà delle sue ferite, tutto di quell’immagine dice della sua falsità . Ma, osserva l’artista, nemmeno quest’affermazione è vera: c’è un’unica autentica piccola cicatrice sul corpo del modello,
“un fievole riflesso di una storia vera del passato nascosta nella finzione”. Le sue immagini sfruttano la fiducia nella veridicità della fotografia per costruire ritratti in cui vero e falso si confondono, portando gli spettatori al paradosso. Come avviene di fronte a
Marta, che raffigura una modella anoressica, un ritratto generalmente ritenuto il meno verosimile, il più artefatto, mentre in realtà è l’unico su cui quasi non c’è stata rielaborazione.
Le fotografie di Dragan non aspirano a dire qualcosa dei loro soggetti. Al contrario, ne tacciono, oltrepassando l’artificialità della posa
attraverso la rielaborazione dei dettagli. Particolari di scatti diversi di uno stesso soggetto si ricompongono in un unico ritratto. I tratti del volto sono evidenziati e amplificati fino all’esasperazione, le rughe si fanno più profonde, gli occhi più sgranati, le vene affiorano in superficie e la pelle si tinge di colori più scuri e innaturali. Sono immagini cariche di particolarità che suscitano repulsione e attrazione, come le sculture giganti di
Ron Mueck, ma svuotate da una loro interiorità appaiono più enigmatiche e inquietanti. I suoi ritratti sembrano uscire dai racconti di Lovercraft o E.T.A. Hoffmann. Avvolti in un’atmosfera carica di mistero e angoscia, dalle tinte macabre e mortifere. Raffigurano protagonisti di un incubo da cui non ci siamo ancora svegliati. Come figli di una mezzanotte di tombe scoperchiate. E noi, piuttosto che scappare, rimaniamo immobili a osservarli.