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Che il cielo esista, anche se il mio posto è all’inferno”. Scrive così Jorge Luis Borges nella
Biblioteca di Babele. Nel racconto, l’umanità è intrappolata in un’enorme struttura a celle piene di libri apparentemente privi di senso, e tra censure, culti e disillusione il protagonista approda a questa fiacca speranza. L’imponenza scultorea della
Biblioteca di Pinocchio (2008), all’ingresso della Galleria Pack, suggerisce una visione affine.
L’opera di
Peter Belyi (Leningrado-San Pietroburgo, 1971) è costituita da scaffali parallelepipedi verticali in legno, carichi di libri dello stesso materiale. L’infinito è suggerito dall’altezza, ma la caducità dei trucioli e l’inservibilità dei libri denunciano una bugia degna di Pinocchio. Il burattino è bugiardo perché promette una fruttuosa e illimitata conoscenza, lasciando invece con un inutile e ingombrante impedimento.
La Biblioteca di Babele di Borges, che racchiude tutte le combinazioni dell’alfabeto possibili in libri dalle dimensioni sempre uguali, è allo stesso modo finita, per quanto sconfinata. La conoscenza vi è resa non solo innecessaria, ma è ammutolita da una dispersione totale.
Le promesse del Pinocchio architetto sono simili a quelle dell’Unione Sovietica che, al posto della grandezza della Rivoluzione d’Ottobre e dei monumentali progetti di
Tatlin, si è popolata di architetture modulari, ma rese barocche e innecessarie dalla propria decadenza. I due giganteschi
Mausoleo Tipo (2008) di Belyi, enormi modelli in cartongesso raffiguranti edifici semidistrutti, somigliano a ziggurat per la tensione verticale e geometrica e ricordano le piramidi per la propria funzione funeraria. Sono architetture che risultano sarcofagi per la propria inservibilità, abitate ormai solo dal ricordo e dalla storia delle persone che vi hanno vissuto dentro e attorno.
Con
Il Mio Micro-Quartiere (2004), Belyi costruisce dodici palazzi in scala, fatti di diapositive. Alcune sono retroilluminate da lampade alogene poste all’interno delle strutture portanti, che sono parallelepipedi. Il paesaggio ha una desolazione quasi da Chernobyl, ma c’è ancora qualcuno, una storia che sopravvive, almeno nella traccia un po’ spettrale del ricordo. Se nel
Merzbau di
Kurt Schwitters la memoria viveva in oggetti dalle forme più diverse e dava luogo a un’architettura rampicante, organica e prolifica, quella di Belyi è discreta e vive in moduli incasellati, riferimento alla standardizzazione dell’edilizia popolare nella Russia degli anni ’60 e ’70.
Standard e memoria coesistono anche nelle
Cartoline di Ferro (2008), che mostrano superfici diverse invecchiare e arrugginire ciascuna a proprio modo, nonostante il formato identico della cartolina e il comune dispenser che le ospita. Anche se non disitinguiamo niente, possiamo indovinare che pure dietro a quelle immagini ci dev’essere lo zampino di Pinocchio.