L’impressione è quella di disturbare, irrompere in un equilibrio liturgico. È un po’ quello che dovrebbe succedere entrando in una chiesa e che è sempre più raro.
Il visitatore accolto in strada dall’
Obelisco (14 metri di criptico totem a base quadrata) di
Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, Rimini, 1926; vive a Milano), pronto a consumare e decidere, viene subito intimidito dal
Grande Portale per la scenografia di fronte al Duomo di Siena dell’
Oedipus Rex di Stravinskij e Cocteau, che si concede con disponibilità autoritaria. Come un altare istoriato che non sa più trattenersi è cresciuto verso il cielo curandosi solo della propria espressione; la preoccupazione di ciò che deve dirci spacca la sua resistente superficie e prende fiato.
Ci si guarda un po’ intorno per capire: a destra un altissimo
Cuneo con frecce conficcato a terra, più che minacciosamente, eroicamente. Il paesaggio è spiazzante e, grazie alla tensione fra titani di bronzo e ferro mai avvicinati prima, nell’iniziale congelamento da cimitero ci si chiede cosa stia succedendo: a sinistra un lucidato e pesante sistema di cerchi,
Giroscopio, cattura le luci…
eppur si muove, impercettibilmente, per via di un meccanismo (che fino al 2000 stupiva la Borsa di Tokyo e oggi è all’Ambasciata italiana).
Con animo avido, viene allora da avanzare in punta di piedi verso gli altri gruppi d’imponenti santuari. Appena un emisfero accarezza il passante, qualche aguzzo spunzone sfuggito dalla trama delle ordinate nervature ne infilza i sensi. Parte una danza percettiva che scivola appagata su gusci liscissimi e sprofonda impreparata in bruschi crepacci; gli occhi s’impigliano nei mondi interni e scavano nelle fessure. Gli accurati frutti scultorei sono scrigno e gioiello, architettura e carcassa, lusso e grezzo, logica e autopsia. Si preservano e si concedono.
Più in fondo, intanto, qualcosa è accaduto, di irreversibile: un
Cono tronco pieno di splendori è stato trafitto da un’incorruttibile lama d’acciaio. E sta lì, a mostrare il suo coraggioso risultato. Altrove, una stalattite pesantissima è piombata al centro di un volume amputato, con un certo strepitoso devasto (
Una battaglia: per i partigiani). L’uno commissionato nel 1972 per la Government Central Plaza di Binghamton e l’altro lo stesso anno per il comune di Modena, in ricordo della Resistenza: entrambi senza testa non hanno potuto difendersi, e sfoggiano così la loro meraviglia nelle spaccature.
In un angolo altre strutture, come pale senza santi, si deteriorano da sole, soddisfatte delle proprie rivelazioni formali. D’un tratto il caveo, col tabernacolo e il suo tesoro. Si scendono le scale piano, perché
Ingresso nel labirinto – pensato per crescere durante il corso della mostra – lascia socchiusa una parete: la luce caldissima del simulacro attrae e la speranza di accesso emoziona. Ispirato all’
Epopea di Gilgameš, poema epico in caratteri cuneiformi su tavole d’argilla, resterà permanente nelle ex officine Riva & Calzoni.
Dall’alto, intanto, allestite da Angela Vettese, le immagini di
Ugo Mulas assicurano la mitologia dei monili; il grande fotografo li ha catturati nella loro storia, con speciale intuito bidimensionale ne ha ripensato i volumi e li ha resi icone.