Non si ha mai l’impressione di qualcosa di manipolato, di artefatto di fronte alle fotografie di
Mario Giacomelli (Senigallia, Ancona, 1925-2000). Perché allora non genera angoscia, malinconia o avversione la visione di vecchi avvizziti, di carrozzelle e persone assiepate sulla piazza di Lourdes? Galleggiando in una magia luminosa, ogni sagoma fatta di oscurità compatta sembra liberarsi e danzare, quasi ridente in tutte le fibre, in uno spazio illimitato e a-dimensionale.
Le serie fotografiche in esposizione che meglio rispecchiano questa qualità, ben sintetizzata dal titolo della mostra –
La figura nera aspetta il bianco -, sono
Lourdes,
Scanno e
Io non ho mani che mi accarezzino il volto. Quest’ultimo ciclo raccoglie, sotto una qualifica che suggerisce il sacrificio della carriera religiosa, alcuni momenti di ricreazione nel seminario vescovile di Senigallia, dando espressione, e consapevolezza per lo spettatore, della gioia, della vitalità, della comunione che accompagnano quell’esperienza. Sottane che ruotano sotto le neve e girotondi di tonache nere sospese in un bianco solare squarciano visioni forse tetre e indesiderabili, cristallizzate nel comune immaginario.
Secondo Giacomelli, le fotografie sono tracce di noi stessi, racchiudono la sensibilità verso i soggetti, l’immaginazione che li rende interpreti di nuove storie, la cultura fatta di memoria storica, di ricordi scolastici, di nuove letture, di norme del sapere che ognuno, più o meno consapevolmente, ha dentro di sé. Prendono così forma le serie di argomento poetico, fotogrammi che completano con umiltà le parole scritte da altri, in un discorso lungo centinaia di anni e comune a un popolo intero.
Come nella mente di tanti studenti intenti a leggere i versi di Leopardi, la serie
A Silvia prende il via con la vista offerta da una finestra; ci si accosta poi a Caproni, per visitare luoghi nuovi con gli occhi di chi nostalgico vi fa ritorno: sono meli contorti e bruni come rivoli d’inchiostro, spaventapasseri nell’orto, muri scrostati e campi a cui tornano tutti quelli che hanno nella terra seppur lontane origini.
Io sono Nessuno accompagna invece i versi di Emily Dickinson, ammicca forse a Omero e chiama ombre, manichini, sagome sfocate, sguardi tagliati a metà a divenir protagonisti di una storia surreale.
A centro sala, quasi come a cardine della produzione dell’artista, si trovano i
Paesaggi, esplorati incessantemente durante tutto il corso della sua attività, trasfigurati attraverso punti di vista verticali e visioni aeree, dando luogo, a partire dalla natura e dal suo utilizzo colturale intrapreso dell’uomo, a esiti simili alla Land Art. Dietro a ulivi neri emergono colline lucenti simili a rotondità lunari, mentre i campi arati si trasformano in intricati labirinti e ondulati spartiti musicali.