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30
aprile 2010
fino al 22.V.2010 Man Ray / Robert Mapplethorpe Milano, Fondazione Marconi
milano
Giorgio Marconi fa le cose per bene. Confronti mirati e un’esposizione di gran classe. Per inseguire il filo rosso che lega le opere di due artisti che hanno rivoluzionato l’idea di fotografia d’arte del Novecento...
Mentre
si fa sempre più imperante l’abitudine di ammannire mostre in cui il
confronto-scontro fra artisti di fama non serve se non a nascondere la mancanza
di ciò che dovrebbe fondare l’ossatura di ogni esposizione – ogni riferimento a
idee forti e uno studio di fondo è puramente voluto -, la Fondazione Marconi
manda in scena una piccola rappresentazione in cui gli attori si stringono
davvero la mano, instaurando un rapporto evidente e proficuo.
E non
è solo un puro piacere onomaturgico a dettare la definizione di “poesia
musicale del confronto” per la serie di scatti affrontati di Man Ray (Philadelphia, 1890 – Parigi,
1976) e Robert Mapplethorpe (New York, 1946 – Boston, 1989), due artisti che hanno
dato un contributo fondamentale alla definizione di fotografia d’arte del XX
secolo. Perché se il ripetersi dello stesso formato e dello stesso colore nella
scelta delle cornici offre il senso di una modulazione musicale, il ritmo di un
adagio sullo spartito bianchissimo delle pareti, è pura poesia della forma a
sortire dalle composizioni delle fotografie esposte, con confronti mirati che
segnano il senso di un avvenuto passaggio di testimone, l’affinità di una
ricerca estetica e di una certa visione della vita in momenti completamente
diversi della storia.
Per
Man Ray, Dada e surrealista, la fotografia non è che uno degli strumenti con
cui esprimere la tensione all’equilibrio tra forme, linee e colore, tra
modernità e classicità che informa tutta la sua poliedrica produzione
artistica. Nelle fotografie è il corpo umano a farla da padrone, in un misurato
rapporto formale, esaltato dal contrasto del bianco e nero, che trattiene
sempre una carica erotica sottile e intelligente, mai banalmente provocatoria.
E il
corpo umano è quasi un’ossessione per Mapplethorpe, famoso proprio per
l’erotismo esplicito delle sue fotografie, spesso superficialmente liquidato
come al limite della pornografia.
Guardando
ora affrontarsi i corpi fotograti dai due artisti, è immediato il riconoscimento
di una diversità sostanziale nell’idea di bellezza, di femminilità, erotismo
maschile e omoerotico di due società separate da un cinquantennio di vorticose
rivoluzioni di costume. Kiki (1920) di Man Ray, pur nell’espressione strafottente e
sfigurata della “reine de Montparnasse”, si offre nelle sue forme abbondanti e rilassate,
come in un quadro di Renoir. L’idea di classicità è la stessa filtrata anche nei
dipinti di Manet,
che riproponeva nella Parigi di fine Ottocento i concerti campestri della
pittura veneta rinascimentale.
La
classicità dei ritratti degli anni ‘80 di Lisa Lyon, l’atletica musa di Mapplethorpe,
è tutta votata invece a una riscoperta di Michelangelo, nei decenni in cui impazza la
moda del culturismo e delle diete, e i fisici esibiti sulle spiagge della
California devono passare parecchie ore in palestra.
Poi è
proprio la cronologia a offrire le sorprese maggiori. E se Patty Smith (1986) di Mapplethorpe sembra una
Maddalena di Tiziano, è sconcertante la modernità di Juliet (1948) di Man Ray, pronta ad
abitare la stanza bianca delle ultime scene di 2001: odissea nello spazio.
si fa sempre più imperante l’abitudine di ammannire mostre in cui il
confronto-scontro fra artisti di fama non serve se non a nascondere la mancanza
di ciò che dovrebbe fondare l’ossatura di ogni esposizione – ogni riferimento a
idee forti e uno studio di fondo è puramente voluto -, la Fondazione Marconi
manda in scena una piccola rappresentazione in cui gli attori si stringono
davvero la mano, instaurando un rapporto evidente e proficuo.
E non
è solo un puro piacere onomaturgico a dettare la definizione di “poesia
musicale del confronto” per la serie di scatti affrontati di Man Ray (Philadelphia, 1890 – Parigi,
1976) e Robert Mapplethorpe (New York, 1946 – Boston, 1989), due artisti che hanno
dato un contributo fondamentale alla definizione di fotografia d’arte del XX
secolo. Perché se il ripetersi dello stesso formato e dello stesso colore nella
scelta delle cornici offre il senso di una modulazione musicale, il ritmo di un
adagio sullo spartito bianchissimo delle pareti, è pura poesia della forma a
sortire dalle composizioni delle fotografie esposte, con confronti mirati che
segnano il senso di un avvenuto passaggio di testimone, l’affinità di una
ricerca estetica e di una certa visione della vita in momenti completamente
diversi della storia.
Per
Man Ray, Dada e surrealista, la fotografia non è che uno degli strumenti con
cui esprimere la tensione all’equilibrio tra forme, linee e colore, tra
modernità e classicità che informa tutta la sua poliedrica produzione
artistica. Nelle fotografie è il corpo umano a farla da padrone, in un misurato
rapporto formale, esaltato dal contrasto del bianco e nero, che trattiene
sempre una carica erotica sottile e intelligente, mai banalmente provocatoria.
E il
corpo umano è quasi un’ossessione per Mapplethorpe, famoso proprio per
l’erotismo esplicito delle sue fotografie, spesso superficialmente liquidato
come al limite della pornografia.
Guardando
ora affrontarsi i corpi fotograti dai due artisti, è immediato il riconoscimento
di una diversità sostanziale nell’idea di bellezza, di femminilità, erotismo
maschile e omoerotico di due società separate da un cinquantennio di vorticose
rivoluzioni di costume. Kiki (1920) di Man Ray, pur nell’espressione strafottente e
sfigurata della “reine de Montparnasse”, si offre nelle sue forme abbondanti e rilassate,
come in un quadro di Renoir. L’idea di classicità è la stessa filtrata anche nei
dipinti di Manet,
che riproponeva nella Parigi di fine Ottocento i concerti campestri della
pittura veneta rinascimentale.
La
classicità dei ritratti degli anni ‘80 di Lisa Lyon, l’atletica musa di Mapplethorpe,
è tutta votata invece a una riscoperta di Michelangelo, nei decenni in cui impazza la
moda del culturismo e delle diete, e i fisici esibiti sulle spiagge della
California devono passare parecchie ore in palestra.
Poi è
proprio la cronologia a offrire le sorprese maggiori. E se Patty Smith (1986) di Mapplethorpe sembra una
Maddalena di Tiziano, è sconcertante la modernità di Juliet (1948) di Man Ray, pronta ad
abitare la stanza bianca delle ultime scene di 2001: odissea nello spazio.
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Fondazione Giorgio Marconi
Via Tadino, 15 (zona Porta Venezia) – 20124 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 10.30-12.30 e 15.30-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0229419232; fax +39 0229417278; info@fondazionemarconi.org; www.fondazionemarconi.org
[exibart]