Mentre
si fa sempre più imperante l’abitudine di ammannire mostre in cui il
confronto-scontro fra artisti di fama non serve se non a nascondere la mancanza
di ciò che dovrebbe fondare l’ossatura di ogni esposizione – ogni riferimento a
idee forti e uno studio di fondo è puramente voluto -, la Fondazione Marconi
manda in scena una piccola rappresentazione in cui gli attori si stringono
davvero la mano, instaurando un rapporto evidente e proficuo.
E non
è solo un puro piacere onomaturgico a dettare la definizione di “
poesia
musicale del confronto” per la serie di scatti affrontati di
Man Ray (Philadelphia, 1890 – Parigi,
1976) e
Robert Mapplethorpe (New York, 1946 – Boston, 1989), due artisti che hanno
dato un contributo fondamentale alla definizione di fotografia d’arte del XX
secolo. Perché se il ripetersi dello stesso formato e dello stesso colore nella
scelta delle cornici offre il senso di una modulazione musicale, il ritmo di un
adagio sullo spartito bianchissimo delle pareti, è pura poesia della forma a
sortire dalle composizioni delle fotografie esposte, con confronti mirati che
segnano il senso di un avvenuto passaggio di testimone, l’affinità
di una
ricerca estetica e di una certa visione della vita in momenti completamente
diversi della storia.
Per
Man Ray, Dada e surrealista, la fotografia non è che uno degli strumenti con
cui esprimere la tensione all’equilibrio tra forme, linee e colore, tra
modernità e classicità che informa tutta la sua poliedrica produzione
artistica. Nelle fotografie è il corpo umano a farla da padrone, in un misurato
rapporto formale, esaltato dal contrasto del bianco e nero, che trattiene
sempre una carica erotica sottile e intelligente, mai banalmente provocatoria.
E il
corpo umano è quasi un’ossessione per Mapplethorpe, famoso proprio per
l’erotismo esplicito delle sue fotografie, spesso superficialmente liquidato
come al limite della pornografia.
Guardando
ora affrontarsi i corpi fotograti dai due artisti, è immediato il riconoscimento
di una diversità sostanziale nell’idea di bellezza, di femminilità, erotismo
maschile e omoerotico di due società separate da un cinquantennio di vorticose
rivoluzioni di costume.
Kiki (1920) di Man Ray, pur nell’espressione strafottente e
sfigurata della “
reine de Montparnasse”, si offre nelle sue forme abbondanti e rilassate,
come in un quadro di
Renoir. L’idea di classicità è la stessa filtrata anche nei
dipinti di
Manet,
che riproponeva nella Parigi di fine Ottocento i concerti campestri della
pittura veneta rinascimentale.
La
classicità dei ritratti degli anni ‘80 di
Lisa Lyon, l’atletica musa di Mapplethorpe,
è tutta votata invece a una riscoperta di
Michelangelo, nei decenni in cui impazza la
moda del culturismo e delle diete, e i fisici esibiti sulle spiagge della
California devono passare parecchie ore in palestra.
Poi è
proprio la cronologia a offrire le sorprese maggiori. E se
Patty Smith (1986) di Mapplethorpe sembra una
Maddalena di
Tiziano, è sconcertante la modernità di
Juliet (1948) di Man Ray, pronta ad
abitare la stanza bianca delle ultime scene di
2001: odissea nello spazio.