Nonostante gli scatti selezionati per la mostra siano di altissimo livello, nel loro complesso omogenei e coerenti, quello che colpisce è quanto rappresentino nella storia del grande fotografo, e non soltanto in quella del nostro secolo, come forse questa rassegna un po’ pretenziosamente vorrebbe suggerire.
Sono gli albori di una carriera lunga tutta una vita, ma non solo: sono l’embrione del
modus operandi di
Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, Genova, 1930; vive a Milano), dimostrano la sua fedeltà assoluta al suo modo d’intendere la fotografia, sono una dichiarazione di coerenza a se stesso e al proprio lavoro. A soli 24 anni, da “
fotoamatore come tanti”, Gardin scopre che la fotografia per lui ha senso in quanto documento e testimonianza, voce di racconti altrimenti impossibili da ascoltare.
Da allora sceglierà il reportage, quella che i francesi chiamavano “fotografia umanista”, quella che racconta le storie di gente e paesi, gioie e dolori -oggi, secondo lui, dimenticata- e non la fotografia che racconta sé stessa, da “gallerie”.
Il racconto della sua umanità, Berengo Gardin lo inizia quindi a Parigi, lontano da casa, scoprendo la fotografia di “Life” ma anche del Club “30×40”: non solo una vocazione, ma un lavoro. Era la Parigi che cercava di nascondere le ferite della guerra, una città chiamata a disvelarsi nei suoi anfratti, nelle botteghe degli antiquari, negli atelier degli artisti così come nelle macellerie e al mercato; una Parigi degli innamorati, dei vecchi e dei bambini scalzi, dei negozi in prossima apertura e dei palazzi ancora squarciati dai bombardamenti.
La delicatezza tonale, le lievi sfumature senza contrasti, la limpidezza della struttura compositiva e il piccolo formato sono lo specchio formale perfetto di queste semplici storie del quotidiano, della città, dei suoi abitanti e non dei suoi monumenti; una Parigi inedita, senza simboli né sconti turistici, che mostra vergognosamente l’architettura solo come fatiscente residuato bellico o timido tentativo di ricostruzione. Tuttavia, senza alcuna autocommiserazione: i muri crollati così come i volti della gente, le loro espressioni e le loro rughe, le loro fatiche quotidiane non si appellano alla nostra pietà ma, anzi, a testa alta sembrano voler insegnare cosa sia la dignità.
Era una città che poteva essere una qualsiasi altra capitale europea di quegli anni, una Parigi senza nome, ma con tanto da raccontare, come quelle ballerine dei locali notturni degli “
spectacle strictement interdit aux mineurs”, come si legge sulle insegne di una probabile Pigalle. Bellissime queste ballerine, omaggio forse a
Toulouse-Lautrec, perché, come nei suoi disegni, incontriamo non solo le dee del palcoscenico a gambe in aria in un vorticoso can-can, ma anche sorrisi spensierati nell’intimità del camerino durante il trucco: gli sguardi persi sul proprio volto riflesso allo specchio e cappelli intrecciati di profumato mughetto.
Se l’arte è la ricerca della verità, condotta con ogni mezzo espressivo del presente e del passato, allora anche la testimonianza di uno scatto diviene parte dell’immensa ricerca di significati universali. E, a questo fine, non importa se le proprie foto siano vendute in galleria piuttosto che, per molto meno, a un giornale.