La sala è piccola, le opere numerosissime, le pareti divisorie molto vicine le une alle altre. Due decenni della produzione di uno fra gli artisti più celebri e “difficili” della storia dell’arte italiana,
Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), sono racchiusi in una sola stanza. Sovraffollata, opprimente. I colori scuri e materici dei quadri rendono ancor più pesante l’ambiente, lo saturano. E mantenere la calma è sempre più difficile.
Il viaggio nell’ultimo periodo sironiano inizia già dall’allestimento della mostra a lui dedicata dalla Fondazione Stelline. Dopo il disincanto futurista, dopo l’impossiblità della Metafisica, dopo la caduta di Novecento e del fascismo, cosa ne è stato di un artista che credeva in ciò che faceva? Accantonato, dimenticato, lasciato in balìa del male oscuro, negli ultimi anni della propria carriera Sironi inizia un viaggio dentro se stesso, per esorcizzare il male delle cose passate -il crollo dell’ideologia, ma anche il suicidio della figlia diciottenne- attraverso visioni e parole. Perché è proprio dagli scritti più personali del pittore che una delle curatrici, Claudia Gian Ferrari, parte per questa nuova lettura della senilità sironiana.
Un dialogo incomunicabile tra l’uomo e il mondo, un’angoscia impossibile da esprimere. E le tele si tingono di nero cupo e grigio pastoso, come la mente offuscata dalla depressione per le tante sconfitte. Qualche schizzo di colore, soprattutto nelle composizioni polinucleari, non riesce a sconfiggere il plumbeo che avanza, l’accostamento delle immagini diventa metafora della frammentazione della realtà. E l’uomo? Sopraffatto dell’esistenza, impietrito, immobilizzato, persa la sua centralità nel mondo, non può far altro che rivolgere il proprio pensiero a Dio, e cercare nella religione una possibile fuga dalla realtà.
Neanche la tanto amata Milano è più colorata. Il gasometro della Bovisa si staglia, scuro e incombente, su una minuscola sagoma corvina in bicicletta. Gli edifici industriali si rivestono di una patina cinerina, tutto sembra coperto da fuliggine, come in un devastante panorama post-bellico. Ma la guerra è solamente interiore. Così, la veste de
La Penitente è finalmente bianca, sebbene sempre avvolta da un tenebroso sfondo nero.
La grande chiesa, massiccia e imponente, non riesce a sovrastare le ciminiere della città; scura, si perde nel tetro cielo post-atomico. E
Lazzaro è dipinto ancora esanime: neanche la resurrezione è possibile per l’umanità.
Non c’è più speranza, per Mario Sironi, né possibilità di salvezza, dopo tanto dolore. L’ultimo viaggio finisce dove inizia la trascendenza spirituale. L’unica cura, per il grande male, è la morte.
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Precise le sensazioni descritte riguardo la saletta espositiva con, come se non bastasse,un fastidioso rimbombo delle recriminazioni degli adetti alla cassa (il giorno in cui arrivano nuovi libri o cataloghi c'è pure l'apertura a coltellate delle scatole di cartone, con un effetto terrificante). Impensabile confinare un artista di tale importanza in un abitacolo simile, aggiungendovi settimana della cultura più eco del Miart così da portarvi anche l'ultimo degli spettatori distratti.