Hanno Valley, per quanti non lo sapessero, è il nome di un cratere sulla Luna. Qualcosa di ultraterreno, che appartiene ad una dimensione extra-sensoriale, una realtà altra. Ed è il nome che Paula Wilson (Chicago, 1975) ha scelto di inserire nel titolo della propria personale milanese, la prima in Italia. Trentenne statunitense, curriculum ricco di specializzazioni e riconoscimenti, la giovane artista ricrea attraverso le sue immagini un mondo straniante, colto e ironico, ludico e raffinato. Paesaggi meravigliosi e desolati, divinità in bilico tra il benevolo e il malevolo, spunti afro e orientali all’insegna del mistero, si contendono il campo su un supporto cartaceo particolare, vissuto dalla Wilson in modi diversi. Si tratta di fogli di carta giapponese preparata con una soluzione al silicone che la rende impermeabile al colore, ora intelaiata su grossi supporti in legno –quasi ad avvolgerne, propriamente, lo scheletro– ora stesa in sottilissimi fogli di sapore orientale, passati con acquerello, matita o pastello. Il tutto per ricreare una miracolosa utopia. Quella della conciliazione tra le razze umane, del recupero della primigenia età dell’oro, dell’epoca pre-istorica, pre-religiosa, pre-culturale. Che sfocia immediatamente in una dimensione mitologico-filosofica di panismo tra uomo e natura, tra onirismo e realtà. Come la Hanno Valley, questa è una dimensione esterna, probabilmente irraggiungibile, sicuramente auspicabile. E auspicata in effetti dalla Wilson, in un’interpretazione artistica espressa con un eclettismo -tecnico, prima di tutto, ma anche tematico- che quasi sconcerta. Addirittura in un singolo lavoro si intrecciano pittura a olio, densa e materica c
La Wilson sembra voler giocare con la propria manualità, con un tocco ludico e naïf che sfocia nel primitivismo di Picasso e Gauguin (si veda il motivo del fondoschiena femminile di colore: sensuale, divertente, intelligente). Eppure, l’intento di fondo è tremendamente serio. Una riflessione sulla condizione dell’uomo e della sua conciliazione perduta: senza ricorrere all’aiuto della religione, ma a quello della mitologia. Una riflessione che passa attraverso il raro rabbuiarsi dei colori, il diradarsi delle tinte accese, l’apertura a paesaggi tristi e sconfinati. In un’altalena continua di umori, suggestioni, evocazioni.
barbara meneghel
mostra visitata il 14 giugno 2006
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