La metamorfosi è appena avvenuta. Una delle stanze della galleria si è tramutata in un accogliente e appartato salone dal vago sapore cinese. La credibilità della nuova fisionomia spaziale viene cercata e trovata con successo, sotto ogni aspetto. Alle pareti sono apposti pannelli insonorizzanti dalla tonalità pastello, il pavimento è invaso da un esteso tatami, le grandi finestre sono aperte sul verde esterno. Il tutto fa da sfondo al sincopato e metallico ritmo di uno strumento a corda che accompagna un canto, melodico sì, ma interpretato in modo sbadato. In un momento in cui la critica d’arte si interroga, tra le altre cose, sulla riconoscibilità degli artisti, viene da chiedersi dove sia finito Roberto Cuoghi (Modena, 1973; vive a Milano), autore del lavoro, che della sua presenza nelle opere ha fatto ormai carattere distintivo. In questo caso è la sua voce, modificata, che si fa interprete della storia di soprusi raccontata nella canzone popolare cinese Mei Gui. La voce quindi, come corpo sottile, gli consente di evitare una presenza fisica (e forse, in questo caso ingombrante) all’interno dell’installazione, assicurandogli però la persistenza della prima persona singolare.
Di storie raccontate si occupa anche Ryan Gander (Chester 1976; vive a Londra) che invece di dar voce ad un oggetto come la canzone, preferisce concentrarsi sulla definizione dei personaggi. Irrisolti, complessi o paranoici, questi ultimi, saranno la creazione di un’equipe da far impallidire Wu Ming. L’operazione artistica consta infatti nella promulgazione del progetto di un romanzo, quindici capitoli per l’esattezza, ognuno affidato ad un autore diverso. Oltre ai feticci legati al percorso di ricerca (pagine stampate, cartoni e diapositive), in mostra anche un’antologia degli ultimi trent’anni di lavori realizzati con il neon, che appaiono come vittima di un’esplosione (endogena?) che li rende indecifrabili.
Più articolata e composita è la proposta che si sviluppa negli ambienti occupati da Chris Burden (Boston, 1946; vive a Los Angeles). Il video The Rant (2006), per cominciare, riporta, attraverso la forte referenzialità dell’artista in primissimo piano, uno scenario apocalittico di involuzione e imbarbarimento della specie umana. Un ritorno al passato in un futuro che si piega su sé stesso sotto l’enorme peso di una tenda-bunker che usa come unità costruttive sacchi di cemento. La provocazione continua, spostandosi dal piano universale a quello particolare, e prende le mosse da un lato dall’ingombrante presenza delle autorità (L.A.P.D. Uniforms, 1993) e dall’altro dalla preziosa valenza delle armi (Gold Bullets, 2003).
La mostra nel suo complesso riunisce una grande quantità di temi e di immagini, alla stregua di un organico orchestrale. Questo trio di protagonisti, però, dà l’impressione di steccare nella logica d’insieme. Nonostante la qualità degli assoli.
claudio musso
mostra visitata il 22 settembre 2006
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