Non si tratta più di rimettere insieme i frammenti di un’identità infranta, come nella serie di oggetti distrutti e ricomposti in modo più o meno precario nelle sue ultime apparizioni italiane. Gli ultimi lavori di
Rashid Johnson (Chicago, 1977; vive a New York) rimescolano frammenti disparati appartenenti alla cultura afroamericana, ma il risultato è qualcosa di più stabile, in grado di tenere insieme l’animismo e la fantascienza, manufatti africani del XIX secolo e dischi cult della musica nera anni ‘70.
Al centro della mostra, al di sopra di
The Conference of African Spacemen, una sorta di altare formato da una pila di libri con tanto d’incensi e candele, su una base ricoperta di cera nera, spicca un doppio autoritratto speculare in cui l’artista impersona uno degli affiliati di un’immaginaria società segreta di intellettuali afroamericani: la New Negro Escapist Social and Athletic Club Center for Graduate Studies. I personaggi di questa società, che ritornano più volte nei lavori fotografici di Johnson, s’ispirano ai reali protagonisti del movimento dei diritti civili, ma partecipano di una sorta di mitopoiesi postmoderna, che trasfigura riferimenti colti del passato in una cornice sospesa tra eroico e ironico.
Allo stesso modo,
Black Moses ed
Earth Tour trasformano in icone alcuni album cult del funky anni ‘70, immergendoli in un’atmosfera spirituale. La copertina dell’album
Black Moses è posta al centro di una nicchia romboidale ricoperta di cera nera, con mensole che reggono candelabri e contenitori di bastoncini d’incenso. Quella di
Live P. Funk Earth Tour è ancorata al centro di uno specchio da un asse di legno sporcato da vernice dorata. Questa ricombinazione di manufatti africani, atmosfere misticheggianti e musica nera, più che insistere sull’emarginazione e le lotte di emancipazione ricompone gli elementi della cultura afroamericana.
L’intensa atmosfera spirituale che avvolge questi lavori celebra l’anima nera, ribadendo come il presente della generazione post-black, successiva al movimento dei diritti civili, abbia bisogno di una ridefinizione di radici e identità, da rimescolare e per certi versi alleggerire. Non per metterle in discussione, ma al contrario per riconoscerne la forza. Una forza tale da non aver bisogno di riconoscimenti mondani.
Ed ecco forse perché, proprio mentre il mondo si sorprende per la vittoria politica di Obama, Rashid Johnson si rifugia nel misticismo. Non c’è bisogno di riconoscimento, emancipazione o riscatto, perché si sta celebrando qualcosa al di là della stessa possibilità di essere messo in discussione, si onora l’irriducibile grandiosità di una cultura che non china il capo di fronte a qualunque forma di razzismo. Come dichiara lo stesso artista, non si tratta di affrontare soltanto gli atti concreti di discriminazione, ma anche la loro matrice astratta. E per farlo, occorre far leva proprio sul lato simbolico, culturale, e scardinarlo grazie allo strumento agile e leggero dell’ironia.