Non è facile raccontare l’antologica di
Ettore Colla (Parma, 1896 – Roma, 1968) in mostra a Brera. Non è facile affrontare la profondità e la complessità d’un messaggio carico di sfaccettature, pur nella sua linearità e coerenza; non è facile rendere il giusto merito a una curatela, quella di Marco Meneguzzo, che ha saputo toccare in modo esaustivo tutte le tappe dell’esperienza di Colla; e non è facile appoggiare la penna là dove prima sono passati Dorfles, Calvesi e Argan.
È proprio da quest’ultimo che si può partire nel tentativo di spiegare cosa s’incontra nelle due sale di Fonte d’Abisso, con le quasi trenta opere esposte al loro interno. In un suo scritto dei primi anni ’60, Argan assimilava il lavoro di Colla a quello di La Fontaine, il favolista. Riconoscendo la carica narrativa delle sculture di Colla, intuendo analogie tra i saggi animali parlanti del primo e le sculture agenti del secondo; scartando in maniera netta l’assimilazione all’astrattismo.
Intuizione che ci sentiamo di sposare.
Perché i metalli incastrati e saldati da Colla non sono tanto
objet trouvé, quanto piuttosto
objet cherché: voluti, inseguiti, perseguiti, infine trovati e braccati; selezionati perché simbolo della forza attrattiva e comunicativa della linea.
Una visione che si delinea in modo evidente attraverso la selezione delle opere grafiche di Colla, alcune delle quali funzionali a esemplificare l’esperienza condotta dall’artista con la rivista “Arti Visive”. Una visione che trova la propria legittimazione nel bassorilievo del ’39 inserito in mostra, un
Minotauro in gesso che tradisce la natura davvero narrativa del percorso di Colla. Non siamo, certamente, nell’universo dialettico del primo
Fontana, e nemmeno nella roboante dimensione allegorica di un
Cavaliere; ma si resta comunque nell’ambito di una narrazione in forma di materia.
E ancora va citata la serie di lavori di piccolo formato del ’66, dove si può leggere l’eco del contatto giovanile con
Brancusi: si veda, tanto per inquadrare il discorso, la maschera narcotica e obnubilante di
Ipnotica; per chiudere con le opere di più grande formato, come il
Concerto realizzato a cavallo della metà degli anni ’50: tre metri di ferri riassemblati in una nuova funzione comunicativa, preludio alla definitiva
Verticale doppia del ’67.