Fa un po’ impressione vedere uno degli artisti che nel
1948 hanno fondato a Milano il MAC, il Movimento d’Arte Concreta come
contrapposizione al realismo politicamente impegnato e agli influssi dell’irrazionale
informale, rilasciare oggi interviste nelle sale dell’antologica che la stessa
Milano ha deciso di dedicargli, nel centro espositivo più importante della
città. Soprattutto pensando che, già nel 1948,
Gillo Dorfles (Trieste, 1910; vive a Milano) era
impegnato in prima linea in tutti i più importanti dibattiti artistici che
infiammavano il capoluogo meneghino.
Ed è sua la struttura teorica dietro all’arte “concreta”,
che riprende un termine
introdotto inizialmente negli anni ’30
da Van Doesburg e Kandinsky e che si presentava come l’alternativa per uscire dalle
secche delle diatribe tra figurativi e astrattisti: “
Un’arte basata soltanto
sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese
in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da
ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze,
quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”.
Poi, dagli anni ‘50, l’elaborazione continua di testi che
ormai sono divenuti dei classici (
Le oscillazioni del gusto, 1958;
Ultime tendenze
dell’arte oggi,
1961;
Estetica del mito, 1967;
Il Kitsch, 1968, solo per fare qualche esempio) e che, fin da
subito, si sono opposti al metodo crociano allora dominante. Accanto a una
sterminata produzione letteraria, una costante e continua produzione artistica,
con una destinazione spesso privata e quindi rimasta in parte sconosciuta.
Opere che si datano fin dagli anni ‘30 e che per questo
negli ultimi decenni si sono potute vedere esposte nelle mostre dedicate ai più
disparati temi e movimenti dell’arte italiana del Novecento. Difficile dire se
i 200 tra disegni, dipinti, ceramiche e sculture presentati a Palazzo Reale,
scelti tra i più di 1900 pezzi che compongono il
Catalogue Raisonné dell’artista appena licenziato
per le cure di Luigi Sansone, reggano alla formula di un’antologica.
Si prova un certo imbarazzo a giudicare le opere di un
personaggio che ha sempre rappresentato una voce imponente nei dibattiti
critici praticamente di tutto il Novecento; e che è forse il primo uomo a
inaugurare, a cent’anni, una propria esposizione. Ed è lo stesso Gillo a
chiedersi, ironicamente, chi tra gli amici e nemici della critica “
avrà il
coraggio di giudicarlo”.
Fin dagli esordi, i suoi dipinti si contraddistinguono per
un’idea visionaria e zoomorfica, organica delle forme, ispirata forse in
principio anche dalle immagini che poteva vedere sui testi studiati alla
facoltà di medicina, la sua prima laurea. Forme che si sposano agli ideali
dell’arte concreta e che non abbandoneranno mai la produzione artistica di
Dorfles, fino alle opere degli ultimi anni.
A chi comunque, per anagrafe, si trova fuori da ogni
dibattito artistico del “secolo breve”, è forse permesso un giudizio. Le opere
più significative sembrano doversi rintracciare all’interno e non molto oltre
gli anni ’50, con creazioni di grande equilibrio formale e coloristico.
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