Il colpo d’occhio sulla mostra è di notevole eterogeneità, tanto da far quasi credere che si tratti di una collettiva. Se non fosse per il ripetersi discreto di quelle corna di cervo, nere e luccicanti. E se non fosse per quel gusto concettuale leggermente noir che aleggia su tutto lo spazio espositivo. Dopo la recente personale di Luca Francesconi (che, anche se italiano, non si sentiva europeo) Marella torna a discostarsi dai binari del filone cinese, e porta per la prima volta in Italia Marc Swanson, giovane artista statunitense già consacrato dall’olimpo degli spazi newyorkesi (P.S.1, Whitney Museum), oltre che dal londinese Saatchi.
In mostra una serie di collage, sculture, installazioni e video che offrono, in un progetto site-specific, un assaggio ora dolciastro ora decisamente interessante del lavoro di Swanson. Un approccio che mescola stili, tecniche, richiami e rimandi, facendo sentire l’eco dell’Arte Povera nel processo di riciclo e assemblaggio dei materiali. Da quelli più comuni, come il legno e lo specchio, a scelte più ricercate, come l’utilizzo del glitter e dei cristalli. Se dunque il percorso espositivo si apre con una serie di collage vecchia maniera, che ripropongono il mito vissuto degli eroi da copertina in bianco e nero, si fa via via più intrigante con l’inserimento di lavori che uniscono il nero e i cristalli in un effetto raffinato e accattivante, che chiama in causa la bellezza allo stato puro. Il colore notturno per eccellenza e i brillantini si incontrano in sinuosi percorsi materici, ora nell’altera testa di un cervo (di quelle, per intenderci, che si trovano nei rifugi di montagna), ora nelle sue corna abbandonate, ora nella geometria limpida di tre disegni astratti. Senza dimenticare il profilo warholiano di una fascinosa donna in stile diva Anni Cinquanta.
E ancora, l’utilizzo di materiali di riciclo “speciali” si ritrova in una serie di specchi simil-graffiati, con la superficie segnata da spruzzi di colori astratti: quasi una rivisitazione post-moderna del nostrano Pistoletto. Ma la (in)coerenza del percorso è rotta dall’inserimento della videoinstallazione Anyone, Anywhere, Anytime, realizzata da Swanson in collaborazione con un regista pubblicitario. La sua impronta lascia decisamente il segno. Il video mixa flash di immagini psichedeliche, di erotismo spinto, di richiami alla società contemporanea e all’individuo in rapporto con essa, concedendo ampio spazio al fotogramma pubblicitario e strizzando l’occhio alle atmosfere da disco-dance anni Settanta / Ottanta. Swanson propone in questo modo scelte estetiche che lasciano intravedere le inquietudini di un artista in rapporto con il suo e il nostro mondo. Ansie che trovano la loro piena espressione in quello che è decisamente il lavoro più interessante della mostra: uno yeti addormentato, abbandonato, come sconfitto e vinto dal sonno, dal dolore o dal dubbio, contro una parte della galleria. Una scultura, questa, fortemente voluta da Swanson, che legge nell’Uomo delle Nevi decisamente realistico il suo alter-ego più malinconico. La galleria si trasforma così in una sorta di palcoscenico intimista e concettuale per l’artista, una vera e propria piattaforma esistenziale che ne accoglie gioie, dolori e sperimentazioni. E pazienza se la via per raggiungere questo risultato espressivo non passa attraverso l’omogeneità stilistica: la strada, in fondo, è ancora lunga e imprevedibile.
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