Dici Young British Art, e pensi a due nomi: Damien Hirst e Charles Saatchi. Il primo, l’artista più famoso (e remunerativo) della avanguardia britannica anni Novanta; il secondo, il demiurgo e mecenate del risveglio artistico post teacheriano d’oltremanica, il maggior gallerista di Londra, e senza dubbio tra i più facoltosi del mondo.
Anche il nome di Mark Francis (Newtownards, Irlanda, 1962), in mostra da Rubin con un’ampia personale, rientra in quella generazione di enfants terrible che hanno fatto della capitale inglese il centro artistico più effervescente d’Europa. Anche Francis ha partecipato all’ormai storica Sensation, mostra presentata alla Royal Academy di Londra nel 1997 che ha consacrato l’importanza di questa avanguardia di artisti. E anche Francis può vantare la presenza dei propri lavori nella Saatchi Collection (oltre che in altri tra i maggiori poli espositivi del mondo).
Ora l’artista irlandese è presente a Milano con una serie di circa venti lavori realizzati tra il 2004 e il 2006, in cui domina un’astrazione di impronta geometrica molto legata al colore e alla materia. Di fronte ai suoi quadri l’occhio è attratto da continui giochi di reticolati, da forme ora morbide ora spigolose che si intrecciano e si sovrappongono, da sinuose vibrazioni della linea in moduli continui o in contrapposizioni spezzate. Il colore entra in gioco in una duplice opposizione/accostamento: da un lato quello tra il nero e una tonalità più luminosa (il rosso aranciato, il turchese, il beige); dall’altro quello, decisamente interessante dal punto di vista della ricerca sulla materia, tra parte lucida e parte opaca della tela. Dopo aver verniciato la superficie a rendere un effetto ottico di colore lucido, l’artista “gratta” la vernice stessa, e crea un reticolato nero fortemente opaco sul fondo luminoso. L’effetto è di indubbia consistenza materica, come se in questo modo il lavoro venisse ancorato alla realtà, alla sensazione tattile, al supporto reale.
Il colore sfuma, sgocciola, sbava, ammorbidisce gli spigoli di forme vagamente cubiste e fortemente rigorose. Caratteristiche che si ritrovano nella serie di carte esposte nella seconda sala della galleria: il supporto più delicato addolcisce l’impatto delle tele, subentra la forma del nodo morbido con passaggi di pennello scuro su sfondi monocromi. E si creano di nuovo ombre, colate, sbavature.
Pura astrazione? No, non lo è. Il richiamo -in fondo evidente- di Francis è alle forme cellulari osservate al microscopio. Un referente organico / medico che non può non rimandare al lavoro di Hirst, violentemente organico nell’ostentazione degli animali in formalina, e polemicamente medico nell’esposizione meticolosa delle celebri bacheche di pillole. E un ulteriore punto di contatto con Hirst può essere considerata proprio l’attenzione alla materia, alla fisicità dell’oggetto e del colore: un vago ricordo dell’Arte Povera italiana che, se in Hirst è più sfacciatamente evidente, in Francis è sottilmente insinuato sulla tela, forse a indicare una volontà di non arrendersi all’astrazione pura.
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