Nel 1964 comparve per la prima volta sul giornale inglese
Time il termine “Op Art”, abbreviazione -ammiccante alla pop art- dell’aggettivo
Optical. Con quest’etichetta si indicavano quei fenomeni artistici, affini all’arte cinetica e programmata, nei quali l’opera giocava con l’occhio dello spettatore, proponendogli illusioni percettive e inganni sensoriali insiti nelle forme stesse del lavoro.
Julian Hoeber (Philadelphia, 1974; vive a Los Angeles), giovane artista statunitense alla prima personale italiana, ha studiato la lezione. Non soltanto quella relativamente recente dei giochi optical anni ‘60, così londinesi e chic. Ma anche la storia che stava alle spalle di quelle esperienze, a partire dalle ricerche del XIX e XX secolo sugli effetti delle strutture cromatiche e geometriche sulla retina oculare. Tutti quegli studi ed esperimenti condotti su basi scientifiche, che miravano a creare l’illusione del movimento e del colore nell’occhio dell’osservatore, pur non essendo questi effettivamente presenti sulla tela. L’artista di stanza in California vi aggiunge però una carica di contemporaneità assolutamente personale, che mescola rimandi erotici, pop e cinematografici in un complesso eclettico e affascinante.
Presente in mostra, innanzitutto, una serie di disegni su carta di ampio formato, che rientrano pienamente nella tradizione optical. Sia per l’uso discreto del
trompe l’oeil (il nastro adesivo rigorosamente finto sembra tenere attaccate immagini fotografiche su un ideale sfondo bianco), sia nelle forme geometriche a spirale e onde bicolori tipiche degli inganni percettivi del “genere”. Basta osservare il lavoro dalla giusta distanza e abituare l’occhio: si vedrà emergere dalla carta la scritta
Feed me Pretty, un’allusione erotica sostenuta dalle forme circolari, vagamente simili a seni, che compaiono in primo piano. Medesimo procedimento per un lavoro su fondo scuro, in cui un reticolo di linee perpendicolari crea punti circolari che sembrano apparire e scomparire. Lo spettatore deve solo accettare il gioco, lasciarsi coinvolgere e sospendere il giudizio. Nella seconda sala, il richiamo alla tradizione optical si unisce all’eco del Minimalismo. Innanzitutto nella serie di piccoli disegni
Minimally Erotics, in cui giochi di linee geometriche in rigoroso bianco e nero celano forme di organi sessuali e simili. Quindi, un omaggio esplicito alle sculture di
Sol LeWitt, con un piccolo lavoro in legno, sul quale -da qualsiasi parte lo si osservi- sarà sempre leggibile la scritta
Impossibile oppure
Gorgeous.
La mostra si conclude con un video, liberamente ispirato al lavoro analogo di
Andy Warhol del ‘63,
Kiss. Protagonista indiscusso, il bacio. L’artista ha invitato una serie di coppie, senza alcuna distinzione di sesso, a interpretare un bacio appassionato davanti alla telecamera. Anche in questo caso, non si abbandona il tema della finzione ottica: i baci sono dichiaratamente e volutamente “finti”, sono cast esplicitamente diretti da un regista che non fa nulla per nascondere la propria presenza (se ne avverte spesso la voce fuori campo, così come le mani che intervengono a posizionare gli attori, o il microfono appeso a registrare le voci). Anche con questo lavoro, Hoeber intende farci riflettere sulla sospensione dell’incredulità, sull’illusione che solo la vita può creare. E l’arte ne è perfettamente artefice.