I memi sono entità informative di base della cultura. Si
tratta di “oggetti” estremamente familiari, in quanto prodotti dalla specie
umana. Ci caratterizzano. La
Marylin di
Andy Warhol, ad esempio, è un meme. Tutta la produzione di Warhol può
a buon diritto considerarsi una costellazione di memi. La Pop Art stessa, forma
d’arte votata alla veicolazione dalle immagini tipiche di una cultura, è un
unico grande meme.
Ora, in quella che è stata definita la “produzione” di
Thomas
Bayrle (Berlino,
1937; vive a Francoforte), siffatti “oggetti” della cultura assumono lo statuto
ontologico di
superforme. Anche Bayrle, come il quasi filosofo
Richard
Dawkins – che coniò il termine ‘meme’ -, ha dato un nome specifico a un
correlato ontico dalla tutt’altro che aleatoria stabilità ontologica. Che, da
Cardi Black Box, torna alla ribalta con una mostra di ampio respiro, attraverso
la reinterpretazione della prima personale tenuta nel 1968 nella storica
Galleria Apollinaire.
In mostra serigrafie di grandi dimensioni insieme a opere
inedite in Italia, collage, lavori a tecnica mista e impermeabili d’artista
realizzati con i motivi grafici della “
produzione Bayrle”. Il cui apparato immaginifico è
divertente e profondo a un tempo. L’iconografia dell’artista tedesco raffigura
oggetti completati dalla giustapposizione delle loro stesse parti. Tutto il
lavoro è la traduzione in immagini della riproduzione in serie di cose e
persone, elemento fondamentale della riproducibilità meccanica delle magnifiche
sorti e progressive della modernità.
Si tratta dunque di un apparato iconografico che solo
apparentemente si esprime attraverso il linguaggio della gaia levità. Di fatto,
il retroterra intellettuale è presente senza con ciò stesso scadere nel
didascalico. Organizzazione capitalistica e organizzazione comunista della
produzione sortiscono nella poetica di Bayrle il medesimo effetto
sull’individuo: ne annichiliscono l’intrinseca irripetibilità, rendendolo
uomo-massa. La parte non è più del tutto:
è il tutto. Superforma, dunque.
Soggetta al ciclo senza inizio e senza fine della riproducibilità.
Uno degli elementi caratteristici dell’iconografia di Bayrle
è l’autostrada, immane nastro trasportatore lungo il quale cose e persone
subiscono il ciclo delle merci. Superforma è allora non solo il risultato
dell’anonimia seriale della cosa, ma anche l’esito del processo di reificazione
della persona: siamo tutti omologati a un medesimo valore riconosciuto, che in
siffatto processo autoreferenziale della riproduzione viene a essere la
riproducibilità stessa.
Tanto da rendere estremamente familiari le parole
che
Lea Vergine usò a proposito della
Pop Art:
“La Pop Art intrattiene una sorta di innocente affabilità nei
riguardi di quella grande macelleria che è la vita. Essa ha spalancato le porte
all’angoscia e alla depressione, ha comunicato il terrore della fine
collettiva, l’orrore per il processo di pastorizzazione dell’individuo”.