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titolo più felice per questa retrospettiva che Fondazione Mudima dedica a Silverio Riva (Voghera, Pavia, 1940-1998).
Scultore: inconfutabilmente scultore.
Padrone di una manualità viscerale e virale, che emerge con straordinaria
vitalità già nell’inedito Cavallino messo
insieme con la plastilina ad appena undici anni, prova troppo matura per poter
essere considerata il semplice gioco di un ragazzino; appassionato indagatore
della materia, anzi: delle materie, dal bronzo al marmo alle ceramiche –
rigorosamente di Albissola – seguendo scelte linguistiche dettate a ondate,
vuoi dalle tasche troppo vuote per permettersi una fusione, vuoi da un istinto
invece più consapevole, da una ricerca mirata e calibrata.
Italiano: irrimediabilmente italiano, Silverio Riva.
Italiano in quella vis polemica imbevuta
di una concessione compiaciuta all’autocommiserazione, in quell’autoritratto in
forma di cornacchia – solitaria, malaugurante – che gracchia verità scomode
appollaiata sui bronzi; italiano nel legame incomprensibile e indissolubile con
la sua terra, che a dispetto della stima raccolta a Milano come docente a Brera
sceglierà di non abbandonare mai, sacrificandosi nella condizione di “artista
defilato”, quando non ingiustamente “provinciale”. Cantore di una terra tanto aspra
di bassezze – Voghera: la città della bieca casalinga – quanto grassa di belle
teste – Voghera: la città di Alberto Arbasino.
Aveva deciso per Manzù, come maestro e punto di
riferimento; ma erano anni, i suoi, in cui all’Accademia di Brera in caso di
classi sovraffollate gli allievi venivano scelti e non sceglievano. Finisce per
caso sotto l’ala di Luciano Minguzzi,
che lo vuole con sé nella realizzazione della Quinta Porta del Duomo: prima prova
di una certa complessità, subito superata con brillantezza.
Da lì l’escalation che lo
porta, attraverso la lezione di un Giacometti
ammirato in Biennale, alla maturazione di uno stile che è maturazione di un
percorso complesso, a un lungo processo di abbandono della figurazione.
Tanto deve essere rimasto
negli occhi di Riva quando, bambino, assisteva nello studio del padre – pittore
di provincia – a quegli incontri disperati di giovani artisti renitenti alla
leva, svernati a Voghera per scampare al fronte. Tanto è rimasto dei Garau e dei Ballo; tanto è rimasto di Alik
Cavaliere, della sua curiosità per il racconto dell’elemento naturale.
Un’indagine che in Riva trascende apertamente i toni della denuncia: da un
cascinale di pianura, assediato da cave disinvolte e discariche, lancia il
proprio grido di dolore per una natura seviziata nell’indifferenza generale. La
seconda metà degli anni ’70 regala Archeologia
alluvionale e Paesaggio Urbano,
tragiche ironie di rifiuti eternati in concrezioni di terracotta; ma anche la
serie degli “alberi geometrici”, i solidi che eruttano luminescenti e perfetti
dal germogliare disordinato delle piante.
Infine il ripiegarsi su un’indagine
non banale della classicità e il riconoscimento del valore di Ipousteguy; ma anche il folle sogno di
donare arte alla sua terra, con la creazione di una rocambolesca Biennale che
in due edizioni ha portato in piccoli comuni dell’Appennino pavese gente come Pomodoro e Staccioli. Esperienze a loro modo epiche, di cui pochi conservano
memoria. Come si conviene a un grande Scultore.
Italiano, ovviamente.
francesco sala
mostra visitata il 9 dicembre
2010
dal 23 novembre al 23 dicembre 2010
Silverio Riva
a cura di Gianluca Ranzi
Fondazione Mudima
Via Tadino, 26 (zona Piazza Lima) – 20124 Milano
Orario: da lunedì a venerdì ore 15-19.30
Ingresso libero
Catalogo disponibile
Info: tel. +39 0229409633; fax +39 0229401455; info@mudima.net;
www.mudima.net
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