In un certo senso,
Edo Bertoglio (Lugano, 1951) si è sempre occupato di ossessioni. Ha documentato l’esplosione creativa dell’underground newyorkese di
Andy Warhol negli anni ’70 e ’80; è stato immerso in un’atmosfera, forse irripetibile, che l’ha segnato per sempre. Delle numerose dipendenze che l’hanno attraversato in quegli anni, l’artista è fortunatamente riuscito a lasciarsi alle spalle la droga, ma non la propria passione per le facce e, cosa più importante, un certo interesse per l’ossessione stessa.
Nel suo ultimo documentario,
Face Addict, Bertoglio torna nella Grande Mela, alla ricerca degli amici sopravvissuti a quella fase della sua vita, così creativa ma incontrollabile. Il suo è un lavoro documentario, ma fortemente motivato da un percorso personale. È questa esigenza di esplorarsi guardandosi dal di fuori che sposta il tutto su un’altra dimensione, rendendo lo sguardo dell’artista non freddo e glamour come quello di un fotografo di moda, ma guidato da una necessaria ricerca delle radici, e dei resti, della propria
addiction.
Anche in
Finish Line Bertoglio è seriale e feticista, quasi compulsivo. Dopo le facce e l’eroina, l’oggetto del suo desiderio sono le Slot Cars. Si tratta di macchinine realizzate più o meno in casa, fatte gareggiare su circuiti o collezionate maniacalmente, comprandone i pezzi o scambiandoli con altri fanatici del settore. Le Slot permettono di unire la passione per il dettaglio del collezionista con l’agonismo del pilota, creando quello che potremmo definire l’hobby perfetto.
Al contrario delle macchinine, che corrono su un singolo solco elettrificato, la mostra viaggia su due binari paralleli: da un lato ci sono le foto, dove lo sguardo e il flash di Bertoglio elevano i modellini a bolidi degni della copertina di una rivista patinata, documentando anche l’entusiasmo e lo spettro umano variegato che ci sta dietro; dall’altro, le installazioni inseriscono il visitatore in un ambiente percettivo che riesce, a tratti, a rendere il tema principale dell’ossessione in modo sinestetico.
Infinity, una scultura-circuito in legno posta a metà mostra, produce un rumore continuo e alienante per mezzo dell’unica Slot che vi gareggia, al perpetuo inseguimento di una
finish line che non c’è. Nella stanza a fianco, una delle pareti è totalmente coperta da un pattern di automobiline: uno sciame multicolore ma sistematico, che immediatamente avvolge il campo visivo. Le singole Slot Cars si confondono tra loro in motivi ricorrenti, esattamente come il suono emesso da quella solitaria nella stanza precedente, che continua per tutta la durata della permanenza in galleria.
Se questa felice sinergia dà un senso proprio alla mostra, la scultura nella sala accanto all’ingresso aggiunge un tono più dark. All’illuminazione illustrativa degli altri spazi si contrappone un buio sinistro, dove una Slot grigia, questa volta in scala decisamente ingrandita e priva di decorazioni e ruote, sembra quasi aspettare di essere venerata.