L’opera è del ‘32 e rappresenta i due amici Oreste e Pilade uniti in un virile abbraccio, legati da un dialogo di sguardi. I volti sono seri. E i loro busti in marmo citano l’arte greca, richiamando nella rigidità della postura gli elementi architettonici degli antichi templi. È tutto qui, in questa tela, il rapporto che legò
Alberto Savinio (Atene, 1891 – Roma, 1952) e
Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978). Una
liaison nata sotto il sole della Grecia e proseguita nel cuore dell’Europa, caratterizzata da comuni sensibilità ed esperienze estetiche, ma anche da profonde quanto incommensurabili divergenze.
Il quadro, dipinto da Alberto e intitolato
Colloquio, è stato scelto come immagine simbolo della mostra a Lissone, visto che il suo dichiarato scopo è mettere in dialogo la poetica dei due fratelli per indagarne similitudini e differenze. Un confronto che Alberto, in verità, durante tutta la vita cercò di scansare, a cominciare dalla scelta del cognome Savinio, proprio per evitare confusioni col fratello. Le opere scelte per questo “confronto coortato” sono una settantina, tele ma anche disegni. Che si snodano lungo un percorso che copre gran parte dell’esperienza dei due artisti dagli anni ‘20 in poi. Non manca qualche capolavoro, come
L’enigma del ritorno e la
Melanconia dell’uomo politico (entrambi del 1938) di Giorgio, il già citato
Colloquio,
Fin d’une bataille des anges (1930) e
Il riposo di Hermaphrodito (1944-5) di Alberto.
Ma se queste opere nascono da un brodo di coltura comune, costituito dalla nascita e dagli studi in quella Grecia che, con i suoi miti e con i suoi rimandi culturali, diventa per entrambi una vera e propria “patria spiritruale”, assai diversi sono gli esiti del percorso. In Giorgio resta forte l’imprinting ricevuto in gioventù dallo studio di
Böcklin e
Klinger, dai quali ricava il senso di nostalgia e la potente fantasia visionaria che si ritrovano, ad esempio, nelle
Piazze d’Italia o nelle
Muse inquietanti. Resta il generale pessimismo di fondo di Schopenhauer e Nietzsche. E la sua metafisica si realizza non già in senso “verticale” -cioè tendendo verso l’alto e il trascendente- ma “orizzontale”, giustapponendo sullo stesso piano oggetti che si trovano in contesti differenti, creando così un profondo senso di straniamento.
Per Alberto, invece, l’esperienza metafisica non è mai predominante. Intelletto complesso, musicista, compositore, giornalista e drammaturgo, si differenzia ben presto dallo stile e dai temi del fratello. Resta la nostalgia per il Mediterraneo e per la memoria ancestrale che evoca e custodisce, ma viene fatta coesistere con elementi allogeni, dalla pittura dell’Ottocento (la struttura a piramide, le vele spiegate e il caos del
Navire perdu rimanda alla
Zattera di
Géricault) all’illustrazione libraria, ed è marcata dalla curiosità nei confronti di linguaggi espressivi come la fotografia. Non manca, inoltre, la vena ironica, riscontrabile nelle immagini metamorfiche di uomini con la testa di animale (
Apollo,
Arianna abbandonata) che poi, alla fine degli anni ‘30, sull’onda dell’incomprensione, diventano cupi e mostruosi personaggi simbolici (
Torna la dea al suo tempio,
Penelope,
Passeggiatrice in riva al mare).
Incomprensione. Sì, perché Alberto, a differenza di Giorgio, in vita conobbe relativo successo e dovette aspettare il tramonto del crocianesimo per essere rivalutato in tutta la sua multiforme genialità. Ed è questo spingere verso la personalità ampia e sfaccettata di Alberto più che su quella ormai inquadrata di Giorgio, l’aspetto più stimolante di una mostra che in sé e per sé non aggiunge né toglie al già noto. Anche se, forse, come scrisse una volta lo stesso Savinio, voler “
chiarire un mistero è indelicato verso il mistero stesso”.