Tutto è spazio nella pittura di
Claudio Olivieri (Roma, 1934; vive a Milano), che si manifesta in un’estatica liturgia della luce. La freschezza diafana del blu, tenue e sfumata, irradia sensazioni d’infinito dal grande quadro
In memoria (2006), che campeggia nella sala della Galleria Artra. I toni freddi sconfinano liquidi in un bianco etereo e limpido, come il fluire ordinato e spontaneo della vita. Sulla parete vicina domina il calore incontrastato di un rosso impastato, che nasce dal nero sfumato per poi espandersi leggero, come l’azione di un fuoco che brucia lento ma intenso.
L’ampia personale milanese dell’artista, che si è formato all’Accademia di Brera durante la stagione informale negli anni ‘50, presenta gli ultimi lavori eseguiti dal 2005 al 2009, accanto a un’opera mai esposta del 1973, confermandone il percorso pittorico come un
continuum mai interrotto dopo gli esordi all’inizio degli anni ‘70, quando si è accostato alla Pittura analitica.
Prima Olivieri aveva giocato con i metalli, realizzando una serie di strutture esposte alla galleria del Milione nel ‘69. Appena un paio d’anni dopo, il nuovo corso verso l’evanescenza dei colori, il suo “quinto elemento”: “
Ho sempre voluto uno spazio non rappresentato, ma in un certo senso vivente, sempre rinnovato e sempre in moto. Uno spazio che necessita di pochi punti di riferimento, abitato dal colore e permeato dalla luce”.
Da allora e sempre più gli interessa la superficie, prima di tutto come fonte da cui far sgorgare libere e morbide scie cromatiche. Con opere ospitate alla Biennale di Venezia nelle edizioni del 1980, del 1986 e del 1990, poi in un crescendo di gallerie.
Dalla superficie, oltre la materia, verso uno spazio diafano che proietta verso un al di là inespresso: il mistero della vita come prepotente epifania, che l’artista cerca ripetutamente di cogliere, ma senza alcuna pretesa di spiegare l’universo. Tanto da fargli candidamente ammettere: “
Mi domando da dove vengano queste ombre colorate che ogni tanto accendono la mia mente, cosa mi spinge a tentare di dare forma e pienezza a ciò che a volte temo sia un puro fantasma”.
L’urgenza creativa di rappresentare il suo (forse) “
vedere oltre” spinge Olivieri a rendere lo spazio come soggetto assoluto di grandi tele che, nella sua natura impalpabile, rimandano agli echi del passato e a una dimensione mentale, se non spirituale, della materia stessa. Persino nell’accostare tonalità lontane come il nero e il giallo sfocato di
Erewhon (2008), i contrasti si sfumano progressivamente, fino a trasmettere all’esterno un conciliante senso di ordine interiore. Tutta la sua poetica, in fondo, sta nella continua ricerca del trascendente nell’immanente.