“
L’identità brasiliana è arte pulsante e autoctona”, e si veda
Tarsila do Amaral, Oswald de Andrade e il
Manifesto Antropófago. “
L’arte brasiliana è una spinta
precisa e universale, è una direzione che ci porta a trovare un senso e una
struttura in tutto quel che creiamo. Partendo da quel che abbiamo dentro”
. Con queste parole,
Anna Maria
Maiolino (Scalea,
Cosenza, 1942; vive a Rio de Janeiro) introduce la sua ultima personale.
A breve allestirà una grande retrospettiva europea, a lei dedicata a
Londra (dal 31 marzo al Camden Arts Centre). La mostra milanese è dunque
un’anticipazione sapiente, seppur breve, sulle future celebrazioni del suo
percorso artistico. Il materiale esposto presenta una selezione di lavori che
sono stati registrati, assemblati, pensati e composti tra gli anni ‘70 e ‘80.
Le sale della galleria brillano in penombra. Proiezioni video,
videoinstallazioni (
Vida Afora), foto in bianco e nero (
Fotopoemação,
In&out Antropofagia,
É o que Sobra) e alcuni libri d’artista
restituiscono all’uomo il proprio statuto di soggetto concettuale. Maiolino
s’affaccia sul contemporaneo riconsegnando la visione prospettica del corpo
puro al ruolo di struttura, terreno d’identità e detonatore di senso.
“
La donna”,
sostiene l’artista, “
crea in spirale mentre l’uomo funziona e pensa in linea
retta. Comunque, al di là della nostra
sessualità, io credo che quel che noi siamo, all’interno del nostro corpo,
attraversi il vuoto. Quel nulla che ci ha dato origine e che noi eliminiamo
dandoci una struttura. L’arte è come una imbastitura, fatta con un filo che a
volte si tende, altre volte si annoda e altre ancora si raggomitola su se
stesso, senza avere più possibilità di scorrere all’infinito”
. Mentre Maiolino parla, alle
pareti scivolano immagini lente e autentiche, fatte di bianco e di nero. Occhi,
bocche, forbici, arti, sopraccigli e pelle fasciano l’intonaco della galleria
stendendo una pellicola spessa, un rivestimento composto da tanto, chilometrico
derma.
In questi lavori sembra
naturale ripercorrere l’urgenza fisica, forse im-mediata,
di ridefinizione e scoperta del corpo. Negli anni ‘70 e ‘80 l’identità
artistica risiedeva nella rappresentazione liberatoria e accentrata del sé.
Viene da chiedersi oggi, nell’arte contemporanea, se denotati e connotati non
abbiano gli uni ceduto il posto agli altri.
“
Il vuoto è la domanda che interrogo da tutta una vita. E noi donne come lo
trasformiamo? Come lo avvolgiamo?”, si chiede l’artista oramai brasiliana. “
Una risposta
che mi sono data sta in queste immagini e nell’uso che io faccio della poesia.
Il vuoto che io utilizzo è puro rizoma, una nostalgia che sparge e non si
riempie mai. Se non con altro vuoto. La direzione che dobbiamo prendere va
verso la manifestazione del fenomeno dell’Altro. Noi non siamo che migrazione
costante attraversata da percezione fenomenologica”
.
La conclusione? “
Se ci
vedessimo di più in qualità di corpi ritroveremmo la nostra struttura, uno
spazio e aperto e delimitato. Un orlo in grado di restituirci la nostra perduta
sacralità e la sua annessa memoria”
.