Che
Luis Molina-Pantin (Ginevra, 1969; vive a Caracas) sia un osservatore scrupoloso, lo si desume dall’utilizzo che fa della luce. Nelle sue fotografie, infatti, non ne abusa: essa non si frappone con i suoi artifici alla documentazione del reale, ma rimane asettica e oggettiva, per lasciare protagonisti dello spazio narrativo i soggetti collezionati dall’artista.
Il procedimento creativo si sviluppa in tre fasi: nasce dall’esigenza soggettiva (guardare criticamente all’architettura come alla forma che l’uomo si dà per vivere), cresce attraverso una meticolosa raccolta di testimonianze e si realizza in una visione obiettiva (grazie all’intento archivistico che la muove) e al tempo stesso allegorica.
Dopo aver puntato il dito contro le gallerie newyorkesi di Chelsea (2001-2006) si è dedicato allo smantellamento di altri luoghi comuni. Nella serie
New landscapes (1999-2000) scatta immagini sovradimensionate di oggetti-feticcio e souvenir che ritraggono gli stereotipi da cartolina con cui vengono banalizzati i luoghi ed esprime la sua incapacità di produrre una moderna pittura di paesaggio;
sulla stessa linea i set da telenovela e le scenografie fittizie della serie
Inmobilia (1997), emblemi dell’immaginario contemporaneo.
In quest’occasione, però, con i fotogrammi “rubati” alle narco-architetture (2004-2005) della comunità colombiana di Calì e a quelli del Parque Duque a Bogotà, spinge la sua riflessione oltre i confini dell’arte, fino ad arrivare alla denuncia sociale. Si inoltra in un territorio in mano alla malavita, affrontandone ogni rischio, per recensire esempi della cosiddetta
architettura ibrida, quel tipo di costruzione che deve la sua infausta esistenza allo strapotere dei narcotrafficanti.
Le tre sale della galleria milanese costituiscono un contenitore perfetto, forse per il carattere di
lugar escondido, di sotterraneo. La più ampia mostra le immagini di un parco dei divertimenti
sui generis, dove la commistione indistinta di stili riflette tutto l’eccesso e l’ostentazione della sua società. Il Taj Mahal, la Statua della Libertà e il tempietto neoclassico convivono, dando forma a contrasti stridenti. Il kitsch trionfa per catturare la benevolenza popolare, abituata a nutrirsi sui media di un’estetica “spazzatura”. Edifici incomprensibili come il
Concesionario de automóviles, Calì (sormontato dalla cupola modello Cappella Sistina) o le ville private dei boss della droga,
Viviendas Altas (come il
Castillo Maroquin) incarnano l’abisso di una cultura dominata dal denaro e dall’ignoranza.
Segue il trittico dedicato all’iniziativa del signor Santa Cruz che, rifiutato dal Club Colombia Ciudad Jardín, semplicemente ne costruisce uno identico tutto per sé. Infine, chiudono il reportage i
condominios fantasmas, strumenti del riciclaggio più sporco. In particolare, due immagini speculari compongono un dittico spaventoso: il lato destro dell’edificio è tirato a lucido, mentre il sinistro giace in stato di totale abbandono. Saranno queste le moderne “rovine” che ritroveranno i posteri?