Entrando nella galleria Emi Fontana, i puzzle sparsi sui tavoli danno l’idea che qualcuno se ne sia andato in fretta e furia. Esplorando meglio lo spazio, invece, ci si rende conto che l’ambiente realizzato da
Rirkrit Tiravanija (Buenos Aires, 1961; vive a New York, Berlino e Bangkok) e dall’architetto
Neil Logan (Detroit, 1959; vive a New York) è il teatro di un’attesa pazientissima. Ogni puzzle raffigura una bomba atomica, un pezzo per megatone. Nella stanza accanto, una capsula in ferro posta a mo’ di divano, a metà tra un feretro dal design futuristico e un refuso industriale degli anni ’50. Di fronte, un video con un bambino punk che legge ad alta voce
Foster, you’re dead, un racconto di Philip K. Dick. Nell’ingresso, oltre ai tavoli, piante illuminate da neon occupano uno spazio foderato da immagini di paesaggi tropicali.
Tiravanija è noto per il suo modo di costruire la propria arte su relazioni spesso effimere, momenti di condivisione come una cena o una chiacchierata in campeggio. Il suo lavoro, insieme anche a quello di artisti come
Maurizio Cattelan e
Carsten Höller, esemplifica perfettamente l’estetica relazionale descritta dal critico e curatore francese Nicolas Bourriaud nel suo saggio del 1998
Esthétique Relationnelle. Citando filosofi che vanno da Marx a Deleuze e Guattari, Bourriaud descrive un’arte fatta di “
affetti e percetti” che è anche lo “
zero sociale” per l’istituzione di un nuovo sistema all’interno della società, seppur potenziale e temporaneo, che si basi su altre logiche rispetto a quelle utilitaristiche.
In questo caso, lo zero è un momento di gioco, la composizione dei puzzle da parte dei visitatori della mostra, ospiti di una sorta di bunker antiatomico.
Una delle accuse mosse all’arte relazionale, in particolare da Claire Bishop, è quella di sacrificare l’estetica in favore dell’etica, ma non è questo il caso. Se l’estetica è “
l’abilità di pensare la contraddizione”, come ha scritto Jacques Rancière, la frizione tra attesa annoiata e paranoia nucleare che aleggia nell’ambiente è sufficiente a mantenere in moto il gioco di Tiravanija e Logan, anche senza la collaborazione del pubblico.
Più che la possibilità della socialità, le installazioni conservano un racconto invisibile che intreccia l’immaginario fantascientifico anni ’50, tra consumismo e guerra fredda, con i toni annoiati di una gioventù senza più la distrazione degli ideali, incredula verso le grandi narrazioni. I puzzle abbandonati sono più evocativi della loro potenziale ludicità e suggeriscono che “non è un paese per vecchi”, mentre è fin troppo evidente che al bambino del video interessi relativamente poco se Foster morirà davvero oppure no. Si aspetta una bomba che non è mai scoppiata, giocando con paure ormai inoffensive.
La catarsi di un incontro o di uno scambio si disperde nell’atmosfera di uno scenario d’antan, un ambiente senza dubbio estetico e articolato, la cui complessità relazionale non s’impone però sul più seducente accostamento di immaginari.