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25
giugno 2010
fino al 24.VII.2010 Deborah Ligorio Milano, Francesca Minini
milano
Materiali di fortuna e manufatti dal sapore ancestrale. Estetiche della sostenibilità e scenari futuri dal sapore antico. Una personale meditativa, una raccolta in equilibrio di racconti di viaggio...
di Ginevra Bria
Per lei racconti di percorsi,
punti di osservazione e analisi sociografiche fanno da rumore, da suono di
fondo. Per lei il cambiamento non ha età e non ha velocità: l’uomo è il centro
parallelo a ogni mutamento. A lei interessa restituire all’arte, alla
composizione del processo, chiavi di lettura efficaci, pezzi di equilibri che
codificano tracce di fattori umani, elementi di trasformazione del materiale
antropologico ed emotivo; raccolto seminato (il più possibile) oggettivamente.
La sua è una pratica della
lucidità, è un concedersi, nei propri lavori, formale e disincantato; un
permesso che ha la responsabilità di trasmettere messaggi per una risposta
conscia. Messaggi di soluzioni che superano la speculazione concettuale,
producendo infine trasformazione. Per lei le strutture ancestrali sono
architetture ricorsive che raccontano di popoli, di etnie, di culture, di
materiali e di esigenze, dimensioni pronte a intaccare le inferenze
consumistiche dei nostri (ottusi) sguardi occidentali.
Il suo nome è Deborah
Ligorio (Brindisi, 1972; vive a Berlino) e questo è l’incipit
della sua ultima personale milanese: “Anthropology of the strange and exotic
can teach us as much about ourselves and our own economic system as it does
about the exotic” (Michael
Taussig). La galleria di via Ventura è
allestita come una mappa bianca, allegoria itinerante, risultato di un lungo
viaggio e di una ricerca sul campo. Poi non così diverso è il titolo che racchiude un ennesimo carotaggio
antropologico analizzato attraverso una serie di oggetti, di manufatti cartacei
e di installazioni sonore. La mostra codifica un’esplorazione linguistica e
malinconica del lontano mondo delle cose, universo che intreccia gestualità a
vissuti, parole a immagini e materiali a tessuti sonori.
Come riporta il comunicato stampa di
presentazione della personale, “le aree del mondo una volta conosciute come
in via di sviluppo continuano a lottare per l’accesso. Ma il progresso arriva
con un’invasione di prodotti. Qui sfere di oggetti s’incontrano, ognuna con la
propria economia, la propria logica di produzione”. In mezzo a queste tre
frasi si gioca il sentimento malinconico della perdita, dell’improvvisa
cessazione di significato di antichi punti di vista.
Fra avventura, visione e movimenti di camera
meditativi, Ligorio registra dialoghi tra culture economiche, unioni politiche
e alleanze strategiche. Terreni che creano ulteriori capacità di scambio tra
gli uomini. Tele verticali, fili conduttori, manufatti ornamentali, oggetti di
recupero e una nuova versione sullo stato delle cose sposta il regime della
verità sotto il dominio del disincanto.
In questa personale pensiero sostenibile e
filosofia del futuro (inteso come paradigma di una coscienza della
collettività) danno forma a composizioni nelle quali bi-dimensione e
tri-dimensione si relazionano con il tempo della consapevolezza. Stato di
vigilanza lucido, lettura di un mondo in cui tutto tende a esaurirsi,
all’interno di un equilibrio osmotico costante.
punti di osservazione e analisi sociografiche fanno da rumore, da suono di
fondo. Per lei il cambiamento non ha età e non ha velocità: l’uomo è il centro
parallelo a ogni mutamento. A lei interessa restituire all’arte, alla
composizione del processo, chiavi di lettura efficaci, pezzi di equilibri che
codificano tracce di fattori umani, elementi di trasformazione del materiale
antropologico ed emotivo; raccolto seminato (il più possibile) oggettivamente.
La sua è una pratica della
lucidità, è un concedersi, nei propri lavori, formale e disincantato; un
permesso che ha la responsabilità di trasmettere messaggi per una risposta
conscia. Messaggi di soluzioni che superano la speculazione concettuale,
producendo infine trasformazione. Per lei le strutture ancestrali sono
architetture ricorsive che raccontano di popoli, di etnie, di culture, di
materiali e di esigenze, dimensioni pronte a intaccare le inferenze
consumistiche dei nostri (ottusi) sguardi occidentali.
Il suo nome è Deborah
Ligorio (Brindisi, 1972; vive a Berlino) e questo è l’incipit
della sua ultima personale milanese: “Anthropology of the strange and exotic
can teach us as much about ourselves and our own economic system as it does
about the exotic” (Michael
Taussig). La galleria di via Ventura è
allestita come una mappa bianca, allegoria itinerante, risultato di un lungo
viaggio e di una ricerca sul campo. Poi non così diverso è il titolo che racchiude un ennesimo carotaggio
antropologico analizzato attraverso una serie di oggetti, di manufatti cartacei
e di installazioni sonore. La mostra codifica un’esplorazione linguistica e
malinconica del lontano mondo delle cose, universo che intreccia gestualità a
vissuti, parole a immagini e materiali a tessuti sonori.
Come riporta il comunicato stampa di
presentazione della personale, “le aree del mondo una volta conosciute come
in via di sviluppo continuano a lottare per l’accesso. Ma il progresso arriva
con un’invasione di prodotti. Qui sfere di oggetti s’incontrano, ognuna con la
propria economia, la propria logica di produzione”. In mezzo a queste tre
frasi si gioca il sentimento malinconico della perdita, dell’improvvisa
cessazione di significato di antichi punti di vista.
Fra avventura, visione e movimenti di camera
meditativi, Ligorio registra dialoghi tra culture economiche, unioni politiche
e alleanze strategiche. Terreni che creano ulteriori capacità di scambio tra
gli uomini. Tele verticali, fili conduttori, manufatti ornamentali, oggetti di
recupero e una nuova versione sullo stato delle cose sposta il regime della
verità sotto il dominio del disincanto.
In questa personale pensiero sostenibile e
filosofia del futuro (inteso come paradigma di una coscienza della
collettività) danno forma a composizioni nelle quali bi-dimensione e
tri-dimensione si relazionano con il tempo della consapevolezza. Stato di
vigilanza lucido, lettura di un mondo in cui tutto tende a esaurirsi,
all’interno di un equilibrio osmotico costante.
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Ligorio – Poi non così diverso
Galleria Francesca Minini
Via
Massimiano, 25 (zona Ventura) – 20134 Milano
Orario: da
martedì a sabato ore 11-19.30
Ingresso
libero
Info: tel. +39
0226924671; fax +39 0221596402; info@francescaminini.it; www.francescaminini.it
[exibart]
Ancora la citazione colta da cui parte il pretesto per l’ennesimo caso di smart relativism.
http://www.contemporaryartdaily.com/2010/06/camilla-l%C3%B8w-at-schmidt-handrup/l%C3%B8w-view-4/
Claude Levi Strauss, grande antropologo, preferiva, ad una forma di turismo culturale, viaggi puntuali. In questa mostra si percepisce la costrizione nel dover imbastire una mostra; con opere-oggetti formalizzati secondo un preciso sentire omologato. Concettualmente si inserisce tutto: economia, esotico, mercato…forse con questi presupposti concettuali, sarebbe stato meglio presentare una galleria vuota. Viviamo una sovraproduzione di prodotti che si riscpecchia in quella di opere e artisti. Percepisco chiaramente un relativismo per il quale può andra ebene tutto e il contrario di tutto; non importa se sia il filmato di un campanile, due secchi formalizzati al meglio o altro.
Non si capisce perchè Francesca Minini invece di ripetere ossessivamente le scelte del padre (che ora il padre non vuole rifare più) non imposti un suo percorso. Quì non si tratta, come sostiene Pier Luigi Celli, di “non poter fare in questa italia”, ma piuttosto di “non saper cosa fare in questa italia”. Non è un problema di strumenti quanto di contenuti. Permane una dipendenza ambigua e morbosa con le generazioni precedenti, una cosa che porta alla paralisi.
Per quanto riguarda lo smart relativism mi viene in mente anche paolo chiasera.
Per dirla in tre parole caro Lucarossi: una cagata pazzesca
“dei nostri (ottusi) sguardi occidentali.”
parla per te ginevra!
Naa, questa è una buona mostra, in linea con la produzione internazionale attuale, ma buona.
Artisti che cambiano le carte in tavole ne nascono ogni morto di papa, anche meno!
Caro Lucarossi, visto che sei interdisciplinare chiedi pure al tuo amato Levi-Strauss, o a Thomas Kuhn, teorico dei cambi di paradigma.
Ti diranno che è sempre stato così.
TERRORE
Il fatto che sia sempre stato così non significa che si debba tacere di fronte a certi clichè plateali. Non è tanto il problema del clichè quanto della mancata occasione di essere diversi o di mortificare eventuali proposte alternative.
Anche M. Gioni mi ha scritto cose simili (è sempre stato così). In realtà però, dopo un secolo carico come il 1900, questa fase mi sembra che abbia alcune peculiarità uniche. Ho in mente anche Liste a Basile, l’affaticamento del linguaggio non è un problema solo italiano. Anche se però guardando i 30 migliori artisti per H. U. Obrist (nessun italiano) si capisce che qualcosa in più si può fare e c’è chi lo sta facendo.
In italia gli operatori sono terrorizzati: soprattutto i più giovani proseguono in silenzio, al margine della strada, precari e con l’interesse di compiacere tutti. Come se esprimere un’opinione sia una fatto di per sè volgare. Costoro rispondono che preferirebbero un po’ di silenzio. Il problema è che il silenzio lo vorrebbero decidere solo loro. Loro continuano a propinare eventi ma non accettano alcune riflessione critica…tutto molto “da italiano che vuole scimmiottare l’atteggiamento colto mitteleuropeo”.
mah, lamentarsi del fatto che vi sia del conformismo è sacrosanto ma mi sembra tremendamente retorico
sinceramente non riesco a scandalizzarmi per il fatto che vi sia un cliché anche in questa epoca, come in tutte le altre
più schietto riconoscere che per l’artista (magari italiano) che sbaragli il cliché c’è sempre posto
Il problema è una vago sentire di presa in giro. E l’incapacità della critica in italia. Forse l’inesistenza della critica in italia. Si è tremendamente convinti che sia meglio proseguire nel silenzio e nel compiacimento generale. Infatti è molto più facile sorridere e compiacere, piuttosto che porre una riflessione, semmai anche amara. Anche all’estero c’è questo compiacimento, ma sistemi più vitali e meno frustrati portano comunque risultati in termini di linguaggio.
Come è possibile chiedere, in italia, a operatori dediti al contemporaneo un momento di autocritica? Operatori che si muovono in un contesto culturale già difficile, dove il contemporaneo viene ancora osteggiato.