Non è la quantità delle opere che fa attardare gli spettatori nelle sale dell’ex Museo della Reggia, ma la magia che scaturisce dalla loro altissima qualità e dall’ambientazione che ricrea, attraverso oggetti provenienti dalle manifatture imperiali russe, l’atmosfera del grande Ermitage. Per scoprire i segreti di queste statue bisogna girarvi tutt’attorno, ma capita anche che una di esse ruoti di fronte allo spettatore. Ci aveva già pensato
Antonio Canova a collocare su di un piedistallo rotante la
Danzatrice con le mani sui fianchi, che smentisce in ogni suo dettaglio la fissità intrinseca della scultura: solo le punte dei piedi sfiorano terra, evocando una rapidità volatile, la veste è sollevata per dare agio nel movimento, morbida e gonfia, come riempita dal vento.
Danzano anche
Le Ore di
Carlo Finelli, donando un carattere a ogni parte del giorno: allegro il mattino, solenne il mezzogiorno, malinconica la sera.
Lo stupore per la scarsa notorietà dell’artista aumenta di fronte alla delicatezza di
Venere che sorge da una conchiglia, non maestosa alla
Botticelli, ma accucciata come fra una coppia d’ali appena dischiuse. Si distingue per originalità la
Ninfa dello Scorpione di
Lorenzo Bartolini, che mostra inizialmente solo una morbida naturale bellezza, per svelare poi, dietro una gamba, l’animale giunto a scomporre la sua sovrumana quiete.
Ci si lascia intrattenere da statue che sembrano mimare la propria storia, ma manca perfino il respiro quando si entra nella sala dedicata alle divinità della grazia e della giovinezza. Spicca fra tutte l’
Amorino alato di Canova, sapientemente collocato davanti a uno specchio, per assaporare in un solo sguardo la bellezza d’ogni suo lato. Più che a un dio, assomiglia a un tenero bambino l’
Amore di
Luigi Bienaimé, che depone le frecce per abbeverare le colombe di Venere.
Al classico subentra il principio del vero, illuminato dall’esempio di scultori del Quattrocento come
Donatello e
Verrocchio: scompare il profilo greco e s’incurvano le spalle ne
L’ammostatore di Bartolini, si imbroncia il viso del
Bacchino magro e malaticcio di
Giovanni Dupré, ricordando che i difetti concorrono all’equilibrio della natura.
L’atteggiamento da dee si attenua anche ne
Le tre Grazie di Canova, svestite delle loro corone floreali e legate in un abbraccio affettuoso.
Nonostante tanto splendore, ci si stupisce ancora giungendo nell’ultima sala, la più intensa per impatto motivo. Accompagnata dalla
Fiducia in Dio di Bartolini e dalla
Psiche svenuta di
Pietro Tenerani, conclude la mostra la
Maddalena Penitente di Canova. Girandole attorno si gode della morbidezza della sua carne che, non potendo toccare, si riconosce come marmo solo per il candore. Occorre però inginocchiarvisi di fronte per coglierne il dolore nel solco delle occhiaie scavato dalle lacrime.
Nell’abbandono di un corpo dimentico della propria sensuale bellezza, Canova non mostra la miseria d’una peccatrice, ma la forza d’animo di un eroe che vince senz’armi, con le sue sole braccia protese.