Piaccia o non piaccia il personaggio, non si può non riconoscere che l’attività dell’ormai ex assessore Vittorio Sgarbi a Milano sia stata di altissimo profilo. Una considerazione che, naturalmente, va contestualizzata nel quadro di un’amministrazione che, non si può non riconoscere anche questo, sarebbe fuorviante definire conservatrice. Semplicemente ha qualche difficoltà a relazionarsi con il presente, ragion per cui un
Saudek diventa corruttore di minorenni o, giusto per fare un altro esempio, una mostra con qualche riferimento all’omosessualità risulta irricevibile per “
Suor Letizia”, come da definizione sgarbiana.
Detto ciò, la mostra che il curatore Rudy Chiappini ha portato a Palazzo Reale, con l’ovvio beneplacito di Sgarbi, è anch’essa di grande levatura. Poiché, se non è affatto semplice riunire in una città che non sia Londra, New York o Parigi un numero tale di opere di
Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid 1992), addirittura ottanta, ancor più arduo diventa il compito quando si è alle soglie delle celebrazioni per il centenario della nascita, con l’inevitabile corollario d’una rassegna antologica che partirà dalla capitale britannica per poi volare a Madrid e a New York. Chiappini ha dunque giocato d’anticipo. D’altronde, sulla sua tempestività non c’erano dubbi, visto che nel 1993 era riuscito a organizzare al Museo d’Arte Moderna di Lugano la prima mostra postuma del pittore.
Venendo alle opere in mostra, per chi non è uno specialista del percorso artistico del grande irlandese sarà oltremodo interessante scoprirne i primi passi in qualità d’interior designer, alle prese con tappeti e paraventi dipinti, o con le prime prove pittoriche, con lo sguardo rivolto a quanto avveniva a cavallo fra gli anni ’20 e ’30 in quel di Parigi. Si tratta assai spesso di opere raramente esposte, come
La Danza (Crocifissione) del ‘33, anche perché Bacon aveva cercato di far calare un velo su questi saggi iniziali, giungendo a ricomprare e distruggere i lavori in circolazione.
Si giunge così a un capolavoro indiscusso dell’arte ormai moderna, lo
Studio di figura II del 1945-46, nel quale iniziano a emergere alcuni dei fil rouge che attraverseranno buona parte della sua produzione:
la figura in primo luogo, l’ombrello come cappa plumbea, il cavo orale aperto a mostrare l’arcata dentaria inferiore, il gesto rabbioso che crea campiture dissennate.
Ma, soprattutto, la ricerca profonda per radere letteralmente al suolo ogni tipo di narrazione, ogni carattere illustrativo, qualsiasi possibilità di farsi distrarre da una storia. Figura e nient’altro, non per raffigurare o fare figurazione, ma per dedicarsi in pieno a quello che è stato definito
figurale. Letti in questa chiave, risultano dunque inediti all’occhio anche i singolari esempi di pittura quasi vacanziera che, all’inizio degli anni ’50, Bacon realizza rammentando i soggiorni maghrebini.
È comunque una breve parentesi e presto, nel 1953, inizia la serie dei cosiddetti
Uomini in blu, e compare con essi la griglia che riduce lo spazio della tela e focalizza lo sguardo. Griglia rigidamente geometrica, euclidea, a tentare di contenere volti ed espressioni che paiono collassare nell’atto stesso di essere ritratti e osservati. Tutt’altro insomma da quanto potrebbe fare una
Sfinge (1954); o, almeno, tutte tranne quella di Bacon.
Vengono poi i
Papi velazqueziani, forse l’unico neo della mostra, poiché mancano le tele migliori di questa “serie” ossessiva. Ma c’è da consolarsi con altri lavori meno noti, come il
Ritratto di uomo con occhiali III (1963), nonché con numerosi e celeberrimi trittici: da quelli più ridotti nelle dimensioni (
Tre studi per il ritratto di Lucian Freud, 1965) a quelli enormi, come l’eschileo
Trittico del 1976.
L’offerta è però ancora immensa.
Rammentiamo almeno il triplice ritratto sulla medesima tela-scena dedicato a Isabel Rawsthone nel 1967, la cui sintassi resta un enigma deliziosamente irrisolvibile; il gioco di forze muscolari, idrauliche e möbiusiane di
Figura in piedi davanti a un lavandino (1976); e, ancora, la
Duna di sabbia del 1983, quando la figura scompare e subentrano energie naturali che finalmente squadernano le griglie di contenimento. Ma senza mai scordare un rigore severissimo, che è l’autentica cifra stilistica di Bacon.
Se resta la forza emotiva per concentrarsi ancora, almeno uno sguardo va concesso alla fucina baconiana. Alle foto, ai cataloghi, ai ritagli di giornali che quotidianamente calpestava nel suo studio londinese. E ai disegni e agli schizzi che, sebbene lui abbia sempre negato di realizzare, esistono eccome. Creando non poche diatribe legali e attributive.
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bella, bellissima mostra.
bacon un maestro.