Sentiamo spesso parlare, in campo artistico, di riscoperte. La maggior parte delle volte, però, queste non sono che operazioni commerciali. Non è il caso di Bruno Pinto che, grazie all’intelligente esposizione realizzata da Pietro Bellasi e Giampiero Giacobini vive in questi giorni la sua, in questo caso doverosa, riscoperta.
Pinto non è un artista giovane: classe 1935, partecipa alla Quadriennale del 1956-57, in cui in una stessa esplosiva sala vengono esposti i sacchi bruciati di Alberto Burri e i “concetti spaziali” di Lucio Fontana; vive la spaccatura creatasi negli anni Cinquanta tra astrattisti e figurativi e l’affermarsi dell’informale. Anni in cui fare arte sembrava implicare necessariamente il dovere di schierarsi, con una corrente o con l’altra e, prima di tutto, politicamente. A questo punto sono le parole di Pinto stesso a darci atto della ragione che lo porta alla fine degli anni ’50 ad un isolamento volontario, durato tre anni (ma ideologicamente tutta una vita), a La Valle, un borgo sperduto tra i monti di Arezzo: “Io non sono mai arrivato al punto di costituire un linguaggio quale che sia, ecco, uno stile…non ho mai voluto definirmi pittore nel senso acquisito del termine, cioè una figura stilisticamente definita”.
Date queste premesse, ci si pone allora da principio dinanzi alle sue opere cercando dei riferimenti o rimandi stilistici. Così vengono alla mente le forme informi di Dubuffet, alcune inquietanti figure di Schiele, le riflessioni di Giacometti sulla presenza-assenza dell’oggetto rappresentato. Poi, se si fa caso alla datazione delle opere, ci si rende conto dell’inutilità di questa ricerca: Senza titolo, 1976-2002; Presenze, 1983-99; Nella stanza, 1983-99.
Queste date ci fanno capire che l’impossibilità di catalogare il lavoro di Pinto è la stessa impossibilità avvertita dall’artista di licenziare delle forme artistiche date una volta per tutte. I suoi lavori allora si comprendono solo se intesi come un diario esistenziale; un’adesione continua, quotidiana all’opera stessa. Un diario dei tormenti, dei gesti (spesso brutali), dei conflitti interiori che muovono l’artista nella sua affannosa ricerca del punto, segretissimo, in cui l’organicità della vita invade la materia. In una simbiosi la cui difficoltà e i cui rischi danno quell’aspetto d’insicurezza esistenziale e di stregata malaise. Ecco allora i materiali più diversi: calce, colla, colore, trucioli e lamine di ferro, sacchi di tela, legno, gomma intrecciarsi in una confusione che è confusione dell’Origine; impossibilità a risolversi in un equilibrio che sarebbe già separazione, altro da sé, distanza presa e momento successivo.
Il cuore dell’esposizione è rappresentato dalle torsioni, gli umidori, le bave energetiche del bellissimo Ceppo (1966), che stà lì, come cuore pulsante, nucleo di una esplosione che ha portato lacerti di vita, concrezioni energetiche e forme in fieri a dislocarsi nello spazio: sculture, dipinti, terrecotte come fossili o radici; opere di piccole e grandi dimensioni vanno oltre uno spazio definito coinvolgendo lo spettatore in una esperienza che stimola, sincreticamente, tutti i sensi.
Una nota di merito va all’allestimento. Quei disegni appesi al muro, senza cornice, fissati solo da quattro chiodini; quelle tele accatastate nel sotterraneo danno un’idea complessiva di work in progress. Fanno immaginare un Pinto che, impaziente, attende la chiusura dell’esposizione per riprendere le sue opere e tornarci sopra, di nuovo, continuando il suo conflitto quotidiano con la materia e con la vita.
stefano bruzzese
mostra visitata il 5 luglio 2005
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