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02
luglio 2010
fino al 25.IX.2010 Enrico Savi Milano, Federico Rui
milano
Photoshop? No, grazie. Tutto analogico, vero, irreale: il Nuovo Mondo prende forma nei meandri di plastica di una Holga. Panorami dissociati e riassemblati, per un collage volumetrico...
Ciò che Enrico Savi (Milano, 1976) costruisce nelle sue fotografie è il
terzo grado del paesaggio. Scarta la lucida geometria didascalica di un Gabriele
Basilico: luoghi
come volti in un ritratto di esclusiva fedeltà, gusto feticista per la forma,
il punto, la linea, l’incastro dei volumi nello spazio. Offre le spalle allo
scavo immaginifico di una Irene Kung, alla sua astrazione assoluta dell’oggetto dal contesto:
il caravaggismo digitale di corpi in ferro e mattone cavati fuori, a forza,
dall’oscurità.
E si concentra, allora, sulla modulazione articolata e
complessa di soggetti omologhi ma distinti, su una convivenza che confonde
realtà e finzione. Luoghi, sia urbani che rurali, possibili ma irreali. Mappe
psicogeografiche, cartoline da deriva situazionista: un panorama reso per
stratificazione di immagini, idealizzato nella sintesi fra tempi e spazi
differenti. Più che fotografie, buchi neri: la fisica cede all’invenzione di un
universo nuovo, credibile pur nella sua meccanica fittizia. Un’allitterazione
visiva, l’esplosione controllata di un panorama che si annulla, si nega e
infine si reinventa.
L’evoluzione di un cantiere, impressa a differenti sfocature
sulla medesima pellicola, è sì la testimonianza di una stratificazione
temporale, ma è soprattutto la creazione di una nuova architettura,
l’immaginazione di uno spazio ulteriore, che rivendica la propria complessità.
In modo analogo, l’addizione di elementi naturali genera
coni ottici imprevedibili, al punto da ricordare, in certe soluzioni, le
fascinose dinamiche dei frattali. E forse è proprio nelle immagini che
escludono, o appena accennano, l’intervento dell’uomo sull’ambiente che Savi convince
di più, trovando composizioni profondamente raffinate, immersive, ipnotiche.
L’analisi sul paesaggio arriva dopo una riflessione – non
documentata in mostra – sul ritratto, dove la medesima tecnica di giustapposizione
delle immagini ha prodotto nuovi freak degni delle orribili e giocose gallerie di Diane
Arbus. Serie
diverse, identico linguaggio formale: quello nato dalla manipolazione empirica
delle Holga, toy camera introdotte sul mercato cinese nei primi anni ’80 e oggi autentico
feticcio per fotografi amatori e professionisti.
Poco più che scatoline di plastica, realizzate con
tecnologie a basso costo e quindi soggette a difetti di esposizione,
infiltrazioni di luce, sfocature; oltre al tipico effetto balloon, che inquadra ogni scatto quasi
fosse scritto in una vignetta. Debolezze che, opportunamente governate,
diventano elementi caratterizzanti. Passando da una presunta balbuzie a un’eccezionale
felicità descrittiva.
terzo grado del paesaggio. Scarta la lucida geometria didascalica di un Gabriele
Basilico: luoghi
come volti in un ritratto di esclusiva fedeltà, gusto feticista per la forma,
il punto, la linea, l’incastro dei volumi nello spazio. Offre le spalle allo
scavo immaginifico di una Irene Kung, alla sua astrazione assoluta dell’oggetto dal contesto:
il caravaggismo digitale di corpi in ferro e mattone cavati fuori, a forza,
dall’oscurità.
E si concentra, allora, sulla modulazione articolata e
complessa di soggetti omologhi ma distinti, su una convivenza che confonde
realtà e finzione. Luoghi, sia urbani che rurali, possibili ma irreali. Mappe
psicogeografiche, cartoline da deriva situazionista: un panorama reso per
stratificazione di immagini, idealizzato nella sintesi fra tempi e spazi
differenti. Più che fotografie, buchi neri: la fisica cede all’invenzione di un
universo nuovo, credibile pur nella sua meccanica fittizia. Un’allitterazione
visiva, l’esplosione controllata di un panorama che si annulla, si nega e
infine si reinventa.
L’evoluzione di un cantiere, impressa a differenti sfocature
sulla medesima pellicola, è sì la testimonianza di una stratificazione
temporale, ma è soprattutto la creazione di una nuova architettura,
l’immaginazione di uno spazio ulteriore, che rivendica la propria complessità.
In modo analogo, l’addizione di elementi naturali genera
coni ottici imprevedibili, al punto da ricordare, in certe soluzioni, le
fascinose dinamiche dei frattali. E forse è proprio nelle immagini che
escludono, o appena accennano, l’intervento dell’uomo sull’ambiente che Savi convince
di più, trovando composizioni profondamente raffinate, immersive, ipnotiche.
L’analisi sul paesaggio arriva dopo una riflessione – non
documentata in mostra – sul ritratto, dove la medesima tecnica di giustapposizione
delle immagini ha prodotto nuovi freak degni delle orribili e giocose gallerie di Diane
Arbus. Serie
diverse, identico linguaggio formale: quello nato dalla manipolazione empirica
delle Holga, toy camera introdotte sul mercato cinese nei primi anni ’80 e oggi autentico
feticcio per fotografi amatori e professionisti.
Poco più che scatoline di plastica, realizzate con
tecnologie a basso costo e quindi soggette a difetti di esposizione,
infiltrazioni di luce, sfocature; oltre al tipico effetto balloon, che inquadra ogni scatto quasi
fosse scritto in una vignetta. Debolezze che, opportunamente governate,
diventano elementi caratterizzanti. Passando da una presunta balbuzie a un’eccezionale
felicità descrittiva.
video correlati
Federico Rui in video a MiArt 2007
Savi a Legnano
francesco sala
mostra visitata il 16 giugno 2010
dal 16 giugno al 25 settembre 2010
Enrico Savi – Imaginaria
Federico Rui Arte Contemporanea – Spazio Crocevia
Via Appiani, 1 (zona via della Moscova) – 20124 Milano
Orario: da martedì a venerdì ore 15-19; sabato su
appuntamento
Ingresso libero
Catalogo disponibile
Info: mob. +39 3924928569;
federico@federicorui.com;
wwwfedericorui.com
[exibart]
il senso?
il senso di che?
Artigiano inutile,
mah. se ti va di argomentare meglio, magari se ne parla. hai la possibilità di farlo anche in privato: puoi mandarmi una mail.