Le scrivanie e gli archivi della Galleria Kaufmann fanno stranamente bella mostra di sè nella prima sala espositiva (di solito l’unica): gli uffici sono stati sfrattati da Roberta Silva (Trinidad, Venezuela, 1971. Vive a Milano), che, coerentemente con la sua abitudine di intervenire sulla struttura degli spazi in cui espone, ha richiesto anche l’utilizzo del magazzino.
Se solitamente gli interventi dell’artista tendono a oltrepassare i confini delle gallerie e dei musei, in questo caso l’installazione coincide mimeticamente con i confini dello spazio espositivo. L’intervento minimo ma totalizzante consiste in una luce molto forte che si accende per un attimo in ciascuna delle tre stanze (magazzino, ex-ufficio e ingresso), completamente spoglie di qualunque altra opera.
“Ho cercato di instaurare un flusso [luminoso, ndr] fra le tre stanze -dichiara la Silva- usando anche il magazzino che di solito è invisibile al pubblico e mal tenuto. Ho voluto creare un’installazione che avesse una luminescenza, uno “shining”, un intervento discreto ma anche violento, che riflettesse la vita, o per lo meno la mia visione di essa e la mia personalità: estatica e violenta a seconda dei momenti”.
Le scariche di luce sono in effetti molto forti, anche se non colpiscono direttamente lo sguardo e durano un solo attimo. “La luce viene recepita ma non captata del tutto dal visitatore. Inoltre, dato che il magazzino è completamente buio, la seconda stanza è in penombra e l’ingresso è in luce, il mio flusso di luce sfuma, sfugge verso la luce naturale all’esterno, come una metafora dell’umano che tende al divino.”
Altre componenti della vita quotidiana che la Silva ha cercato di trasporre artisticamente sono “la necessità di sottrarre perchè nell’esperienza c’è già tanto, troppo” e la “bellezza come energia, l’energia che si scambia tramite i rapporti umani, in positivo o in negativo”.
Di fronte a un lavoro che si confronta costantemente con i limiti fisici dello spazio espositivo, si potrebbe pensare che questa tendenza nasconda una certa frustrazione per gli orizzonti talvolta non solo fisicamente claustrofobici del sistema museale e delle gallerie, nonché del mercato. Roberta Silva invece non include ciò nelle sue motivazioni creative: il suo interesse per i confini dello spazio è per lei solo il contraltare dei limiti e del loro superamento che essa sperimenta nella sua vita.
Inoltre, definisce “non invasivi” anche interventi come Ciao Sergio del 2001, che comportava lo sfondamento del pavimento: anche il sottosuolo e, nel caso della presente mostra, gli interstizi e gli angoli delle pareti sono parte essenziale delle gallerie; una parte meno evidente e perciò metaforicamente più vicina a un superamento del confine del visibile, magari aiutato dall’abbagliamento della retina dovuto alle scariche di luce di Ovunquetusia.
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