La Gam di Gallarate, avamposto tra Milano e il Verbano delle esperienze contemporanee fin dagli anni ’50, rilancia insieme alla nuova sede e alla consulenza artistica di Philippe Daverio un interesse concreto nei confronti degli artisti di ultima generazione. Con l’obiettivo di posizionarsi come un effettivo laboratorio di idee, al di là dell’illustre decennale tradizione.
In questo caso, protagonisti sono
Bianco-Valente (Giovanna Bianco, Latronico, 1962; Pino Valente, Napoli, 1967. Vivono a Napoli), artisti tra coloro che oggi tendono a rappresentare la continuità storica della videoarte italiana e lo scarto neo-intimistico che data all’altezza degli anni ‘90. Coppia nella vita e nel lavoro, Bianco e Valente hanno saputo imporre la loro visione poetica e romantica in uno mondo creativo spesso dominato -soprattutto nello scorso decennio- dall’approccio ipertecnologico e dalla progressione sterile. Portatori di una visione che risale a pionieri come
Nam June Paik, hanno quasi sempre coniugato la pratica installativa con la suggestione di atmosfere ineffabili e con una sorta di impressionismo elettronico.
La miniretrospettiva ne percorre i lavori più significativi dalle origini fino a oggi, sintetizzando la maturazione del duo con un’opera inedita, prodotta per l’occasione, di sapore paoliniano:
The Effort to Recompose my Complexity (2008). Resta l’approccio votato alla sinestesia, al coinvolgimento complesso di sensi e piani di lettura differenti, dalla decodificazione di messaggi visivi sovrapposti all’introduzione del sonoro, della dimensione ambientale, della parola scritta (in
Aria, 2006, tradotta nei versi della poetessa Alda Merini).
Tuttavia, in questa ultima fatica emerge un atteggiamento nuovo, votato alla smaterializzazione del media utilizzato, fino a un grado zero della percezione sensoriale e linguistica: l’invisibile. Scompare il colore, riassunto in un discreto e soffuso
black & white. Il rapporto tra il paesaggio naturale e quello digitale viene ricomposto attraverso una serie complessa di ramificazioni frattali, animate da impulsi impercettibili all’interno di riquadri proporzionali connessi da interventi quasi pittorici, astrazioni che paiono raccordarsi con il minimalismo di opere meno recenti come
Unità Minima di Senso (2002), omaggio forse involontario -e ricollocato in un contesto più contemporaneo- al periodo campano di
Joseph Beuys e alle sue performance “sotto scossa”.
L’appiattimento del mezzo, non più dedicato ad avvolgere lo spettatore, proiettandolo in dimensioni extraterrene, che caratterizzava la passione voluttuosa di opere del 2005 come
Relation Domain e
RSM, trova infine il suo acme nel confronto immediato tra
The Effort e
Adaptive (2007), doppio al negativo e solarizzato della precedente, ormai scevra da qualunque impulso evocativo.
Così, con un gioco ironico a incastri, i due artisti campani suggeriscono, con umiltà e consapevolezza, utili e sintetiche vie di fuga dalla narrazione esasperata o, viceversa, dal formalismo insulso che sempre più spesso attanagliano la produzione video di ultima generazione.