La bacchetta di un direttore d’orchestra è appesa a un albero. Oscilla nel vento a dirigere i rumori di ciò che la circonda: il traffico, le voci dei passanti, lo stormire delle fronde. All’esterno,
Conductor di
Kris Martin introduce alla mostra dello Spazio Oberdan, arrivata dall’ultima edizione del Festival di poesia di Watou, per cui è stata ideata, portandone traccia nelle poesie che l’accompagnano.
Il cambiamento di sede ha influenzato la fisionomia di un’esposizione pensata per spazi più ampi, sacrificando parte delle opere lì esposte, ma soprattutto compromettendo la godibilità di quelle presentate e, in parte, l’idea stessa che sottostà alla mostra. Se è vero che rumore e silenzio si coappartengono come facce di una stessa medaglia, allo stesso modo non possono coesistere che alternandosi, creando un ritmo di suoni e pause che devono essere percepibili. Purtroppo, la scelta di riunire in un’unica stanza otto video eterogenei ha fatto sì che le opere si contaminassero, rendendo faticosa o addirittura impossibile la piena fruizione dei momenti e degli intervalli sonori che le costituiscono.
La mostra non segue un criterio filologico, ma sviluppa alcune suggestioni, rendendo un doveroso omaggio a due momenti artistici. Innanzitutto al Futurismo, con un pianoforte rivisitato secondo le istruzioni di
Filippo Tommaso Marinetti e l’immancabile
Luigi Russolo con il
Risveglio di una città. All’artista friulano e al suo manifesto
L’arte dei rumori sembrano collegarsi anche i tre video dedicati al mondo silenzioso della natura e degli animali, opposto a quello rumorosissimo della modernità.
A Fluxus il secondo omaggio, silenzioso come i tre pianoforti rielaborati e restituiti dalla dimensione di strumenti musicali a quella di oggetti scultorei. Il più eloquente è quello di
John Cage, rovesciato su una pila di tessuti con il titolo
Please Play, invito allo spettatore con riferimento alla celeberrima composizione
4’ 33’’.
Nel gioco delle suggestioni che struttura la mostra vengono articolati gruppi di opere che si rimandano come versioni mute o sonore di uno stesso motivo. Come il sorriso silenzioso dei cento re di
Diego Perrone e la fragorosa risata in omaggio a
Gino De Dominicis di
Lara Favaretto. O il linguaggio dei segni con cui
Jordan Wolfson traduce il finale del
Grande Dittatore e la commovente videoinstallazione di
Melik Ohanian, che fa parlare le mani di alcuni disoccupati armeni. Oppure, ancora, l’acqua scrosciante sulle parole a china di
Marcel Broodthaers, poi silente e immobile nelle boccette di
Joko Ono, ideale preludio al silenzio tombale e definitivo dell’ora blu di
Jan Fabre.
In generale, la mostra ha il pregio di riunire alcune opere di tutto rispetto e artisti di grosso calibro, ma non convince pienamente. Forse proprio a causa della struttura con cui è affrontato un tema così ampio. Perché la scelta di un percorso evocativo fatto di suggestioni può sì giustificare la mancanza di qualcosa, ma non è detto che sia in grado di far bastare quello che contiene.
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Fatica, forte disagio e frustrazione per non poter godere delle opere prese singolarmente, viene voglia di fuggire dopo pochi istanti. Il curatore è davvero troppo devoto al Futurismo ed all'affluenza di suoni che ne deriva (appena finita una mostra a Bergamo sempre curata da lui) da pensare di poter applicare il Russolo pensiero a video che necessariamente vanno visti nella delicatezza dei loro silenzi (come il famoso repertorio su Beyus, qui peraltro in un mini televisore) o suoni delicati.
Libetta ha ragione. Ho portato degli amici architetti in mostra per convertirli all'arte, ma ne sono usciti con grande disagio. Casino totale...