Nel loro stare così vicine l’una all’altra, anche le opere esposte sembrano aver voglia di comunicare tra loro. I lavori dell’ultima personale di Enrico Vezzi (San Miniato, Pisa, 1979), curata da Raffaele Gavarro, sono accomunati dal concetto di relazione. Un’idea che lega lavori (pittura e fotografia) apparentemente molto distanti tra loro.
Attraverso i quadri si può scorgere, nel tratto e nel taglio semplice ma consapevole, l’autenticità con cui l’artista si rapporta con la realtà e con la storia della pittura. Ciò che vede è ciò che segna sulla tela con la china e che poi colora con tinte acquerellate, senza un’elaborazione che mascheri con stile ricercato ciò che l’opera ha da dire. È la coscienza che spesso il lirismo serve a nascondere la semplice verità, della realtà e di sé stessi. Vezzi è trasparente.
I lavori fotografici, per la loro complessità, si pongono al polo opposto rispetto ai dipinti. In ciascuno è ritratto l’artista in contesti diversi. Il balloon che mostra il suo pensiero crea una relazione tra soggetto e contesto grazie alla quale la rappresentazione acquista il suo senso. La complessità dell’opera sta tuttavia nell’impossibilità dello spettatore di comprendere immediatamente l’accadimento che l’opera stessa documenta. Il pensiero che l’artista esprime nella nuvoletta non è infatti intelligibile perché si riferisce ad un momento in cui un accidente particolare ha stimolato in lui una riflessione universale. È un momento privato e tale rimane, assolutamente non esplicitato.
C’è qualcosa di criptico e religioso nelle frasi di Vezzi. Beatamente disteso su una spiaggia Caraibica, egli pensa: “Qui si esaurisce l’osses
Le opere dell’artista toscano galleggiano al di qua del senso in due direzioni opposte: da un lato appaiono sin troppo semplici. Ad ingannarci è in questo caso il nostro vedere in essi soltanto la rappresentazione di un paesaggio che non sa dirci nulla di sé. È diverso se cerchiamo il contenuto nella forma: la semplicità dello stile trasforma infatti soggetti e paesaggi in astrazione pur mantenendo un pretestuale riferimento alla realtà ritratta.
Al contrario, le fotografie faticano ad acquistare un senso evidente perché troppo complesse. Esse rappresentano qualcosa che ignoriamo, ciò che solo l’artista può comprendere appieno e che senza il suo aiuto noi non potremmo cogliere fino in fondo. In questo caso, alla relazione, interna all’opera, dell’artista col suo ambiente, e a quella dell’artista con la sua opera in galleria, si aggiunge la necessaria relazione tra lo spettatore e l’artista, l’unico in grado di iniziarci al mistero di quella visione.
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Ma come si fa...????
Mai una mostra decente in questa galleria...
tante parole spese per nulla!
Antonio datti all'ippica!
topo invidioso.
che fa' hanno risod el tuo lavoro?